Covid 19, una prospettiva psicoanalitica.
L’emergenza sanitaria legata al coronavirus ha stravolto prima la Cina, ora l’Italia e tutti altri Paesi europei. Il virus corre veloce come le nostre merci in tempi di globalizzazione e da Wuhan si è trasferito negli Stati Uniti attraversando tutta l’Europa nessuno escluso, speriamo che rallenti in Africa per ovvie ragioni sanitarie. Viviamo un trauma uno shock paragonabile, dopo 75 anni, ad una situazione di guerra. Abbiamo bisogno tutti di produrre una elaborazione di questo vissuto e la psicoanalisi spero che darà il suo contributo. D’altronde dalla sua nascita ad oggi la psicoanalisi ha a avuto sempre a che fare con il trauma: dalle intuizioni di Freud e Ferenczi sulla psicodinamica del trauma, sull’importanza delle difese dell’Io contro l’angoscia, alle teorizzazioni di oggi con studi neuropsicoanalitici sulle molteplicità dei sistemi di memoria. Tutto questo background ci permette di evidenziare traumi parziali, traumi da sforzo e traumi cumulativi, traumi schermo e retrospettivi, traumi fantasma e traumi provocati, traumi riattivati e traumi primari e ancora tra traumi a mano umana e traumi a catastrofe naturale. Io penso però che questa frammentarietà descrittiva trova un denominatore comune in tutte quelle esperienze in cui il soggetto vive la possibilità di una sua morte, psico-fisica: non c’è trauma se non c’è esperienza di morte (Lingiardi 2008, Van der Kolk 1996). Per morte si intende qui una brusca interruzione del flusso della vita psichica, una modifica profonda, per crollo e/o contrazione, dei parametri spazio-temporali che l’esperienza traumatica prevede: un senso profondo di disperazione di passività e di inermità di fronte a forze esogene che si abbattono sull’individuo privandolo di uno spazio fisico-psichico. E’ l’esperienza del mondo esterno che si impone all’individuo. Tutto trova conferma e stimolo con importanti riflessi sulla clinica, infatti il trauma risulta la causa principale delle ragioni del disagio psichico, del sintomo, della sofferenza psichica e anche la fantasmatizzazione, secondo me, non è altro che una condizione successiva all’evento reale stesso. Di conseguenza ci troviamo costantemente di fronte a esperienze che tendono a ripetersi senza essere ricordate e a noi analisti è richiesto di cercare gli strumenti perché possano essere ricordate, tollerate, pensate e trasformate. Traumatici sono gli eventi, come quello che stiamo vivendo per la paura del Covid 19 e per le sue conseguenze, che mettono fuori gioco l’integrità del soggetto, ponendolo in maniera momentanea o cronica in condizioni di non funzionare in modo unitario e coerente. Purtroppo il trauma colpisce lo sviluppo della funzione riflessiva e delle capacità metacognitive disturbando la capacità narrativa e la competenza autobiografica. L’esperienza traumatica, causa e effetto, di non percepirsi esistente e padrone di se stesso, favorisce la colonizzazione da parte dei modelli di funzionamento errati impedendo la costruzione di una propria soggettività. Non sto qui a citare psicoanalisti che si sono occupati del trauma, cito: Bion, Winnicott, Odgen e altri ma tutti fanno riferimento e lamentano la rottura dei contenitori psichici. A dire il vero anche Freud (1925) aveva fatto espresso riferimento al concetto di angoscia che genera un senso di confusione, di disperazione, e che concerne l’esperienza di impotenza.
Il trauma si propone come una violenta tempesta, che sconvolge un piccolo paese e che lascia segni irreparabili a tutte le operazioni successive di adattamento – nervosismo, proiezioni, rimozioni, dissociazioni, ricordi di copertura e così via – sono tentativi per circoscrivere questo fenomeno incontrollato. Centrale è il ruolo della dissociazione nelle sue varie manifestazioni fenomeniche. Ferenczi (1932) per primo ci parla autoscissione narcisistica come processo difensivo che determina una parte del soggetto che sa e vede tutto ma non sente e un’altra parte che soffre e non capisce ed è impotente e inerme nel suo dolore. L’effetto riscontrato nella patologia è di un Io che ha subito una consistente umiliazione creando scarti, zone morte nella psiche e nel soma, paralisi del pensiero e dell’affettività, depressione per privazione di oggetto, perversioni. Il processo dissociativo permette che pensieri, sentimenti, ricordi e percezioni delle esperienze traumatiche vengano separati, consentendo alla vittima di funzionare come se il trauma non fosse avvenuto. Il risultato a questa soluzione è quello di vivere sempre all’erta, per un pericolo imminente e in secondo luogo provoca una difficoltà nella soggettivazione del vissuto, lasciando spazio a fratture nella stessa organizzazione del Sé. Un altro adattamento versatile posto in essere nel trauma è l’apres coup, cioè il trauma attuale continuamente richiama e riattiva il trauma antico, e ripropone e modifica appunto la scena originaria. Un evento emotivamente significativo rimane nella psiche, non producendo effetti patogeni fintantoché le condizioni maturative o altri e ben più tardivi eventi non convertano retroattivamente il primo evento in trauma; solo in questo momento si manifestano le sue conseguenze patogene. Non si tratta qui soltanto di un’azione differita, di una causa che rimane latente finché abbia occasione di manifestarsi, ma di un’azione causale retroattiva, dal presente verso il passato. L’introduzione dell’apres coup (a posteriori) segna il momento in cui Freud (1920), l’ideatore, abbandona il modello della causalità meccanicista e della temporalità lineare passato-presente a favore di un concetto dialettico della causalità con un modello fluido della temporalità, dove futuro e passato si condizionano e acquisiscono reciprocamente senso nella strutturazione del presente. Riassumendo l’esegesi freudiana, il problema del trauma si colloca su due assi: della pulsione di morte, dove il trauma può essere descritto come un’invasione tanatica, e dell’eziologia dell’a posteriori, e il trauma ci appare come una costruzione, della ripetizione e della temporalità. Secondo questa concettualizzazione avremo traumi disorganizzanti, invasivi e paralizzanti e all’altro estremo traumi costruiti in una storicizzazione temporale aperta. Nel mezzo troveremo tentativi più o meno mancati di legare l’invasione tanatica con la ripetizione. Freud giunse a formulare l’ipotesi della pulsione di morte a causa dei fenomeni ripetitivi, che rappresentano il tentativo più elementare di legare la pulsione di morte impedendole di raggiungere l’annientamento. Quindi, dice Freud, chiamiamo traumatica, una situazione vissuta di impotenza, a cui l’individuo risponde con una reazione originaria d’angoscia. Ritrovandosi di fronte a una situazione di pericolo, che viene riconosciuta come la situazione precedente di impotenza, l’Io del soggetto, che ha subito passivamente il trauma, riproduce attivamente, ma in forma attenuata, l’angoscia che funge da segnale d’allarme.
Una interessante e attuale diversificazione tra traumi a mano umana e traumi a catastrofe naturale viene proposta da Mucci (2014) e Liotti (2011), secondo questi autori ci sarebbe una diversità nella clinica in quanto la catastrofe naturale non causerebbe dissociazione mentre questa risulterebbe una reazione tipica della traumatizzazione primaria (Schore, 2012), invece l’altra riguarderebbe sostanzialmente un iperarousal. Il secondo genere di traumi, catastrofi naturali, può causare PTSD ma non disturbo di personalità che si sviluppano col tempo in una relazione e una famiglia disfunzionale, con dei presupposti di vulnerabilità genetica. Mi sento di integrare queste aspetti osservando che si verifica dissociazione nei traumi a mano umana in quanto si rompe la diade empatica, la connessione io-tu, e la distruzione idealizzata del rapporto con il fantasma, tanto importante nella relazione di attaccamento ed infantile, ma non la ritengo esclusiva, aspetti dissociativi sono presenti anche nei traumi a catastrofe naturale. Continuando noto che nei traumi a catastrofe naturale sono presenti reazioni tipiche di disturbo postraumatico tipo flashback, incubi ricorrenti, memorie intrusive dell’avvenimento traumatico ma che queste risposte non sono esclusive dei traumi naturali ma si trovano anche nei traumi primari intesi come quelli relazionali. D’altronde Freud (1920) ci parla di coazione a ripetere, un tentativo di elaborare il trauma attraverso ricordi parziali, sogni ricorrenti, dove il soggetto traumatizzato non solo riporta all’infinito la solita sequenza nel tentavo di elaborarla ma addirittura la ricerca, secondo una modalità perturbante in certo senso traumatofilica (Correale, 2010), non evidenziando differenze ma solo omogeneità di risposta. Addirittura, secondo il mio punto di vista, nel trauma generato da Covid 19 si vengono a determinare ambedue le condizioni, quella più evidente del trauma a catastrofe naturale, l’altra quella legata al tradimento nell’attaccamento, più strisciante in quanto risulta emergere una sorta di negligenza, imperizia nell’affrontare il problema dall’estabilishment mondiale.
In queste situazioni, così ben descritte, il soggetto vive l’esperienza di essere completamente dominato da qualcosa fuori di lui, qualcosa che lo tiene sotto le sue grinfie, che risponde a leggi proprie e sconosciute e che non ha col soggetto altro rapporto che quello di una forza brutale e di morte. L’opposizione, che risulta sempre un accomodamento, produce anche una condizione di eccitamento euforico reattivo, che ci allontana dalla condizione esperenziale spaventosa e sovrastante, che ci permette di non pensare a quello che ci sta accadendo. La mancanza di rappresentazioni reperibili fa sì che il soggetto cada in preda ad aspetti parziali della scena, che esercitano su di lui un effetto ipnotico. Questo stato ipnoide già osservato Breuer e Ferenczi favorisce l’isolamento dell’accaduto in una bolla emotiva, dobbiamo nel primo periodo favorire questa risposta naturale, producendo comportamenti ripetitivi e routinari: fare ginnastica tutti i giorni, leggere sempre per lo stesso numero di ore, andare a letto sempre alla stessa ora, insomma cercare di fare sempre le stesse cose e rendere le giornate tutte uguali, regolare tutto e soprattutto il sonno. Così diamo la possibilità ad altre macro aree di crescere, sono coraggio e orgoglio, temi fondamentali come abbiamo visto manifesti, in cori alle finestre, in un particolare rinnovato e forte senso di fierezza patriottica, uno stringersi intorno a valori comuni di fratellanza, di solidarietà e al concetto di comunità e bene collettivo. Purtroppo però, piano piano tutto questo lascia il posto, come stiamo facendo esperienza, ad un senso depressivo, dovuto alla nostalgia di un oggetto perduto, ad una condizione posseduta prima del Covid. Si innesca così una inversione di tendenza e si fa strada una condizione di tristezza e di inermità. Ad una veloce osservazione, i due modi di pensare l’esperienza di morte traumatica sono inconciliabili: da un lato un flusso di eccitamento pauroso e distruttivo, dall’altro un’impotenza paralizzante mortifera, con in mezzo una condizione ipnoide, ma ad un più attento esame, però, i due poli sono più vicini di quanto non sembri. La passività non è mai priva di un suo potere oscuro di fascinazione
e l’eccitamento non è mai estraneo a un sentirsi trascinato e in balia di qualcosa. Dall’euforia alla depressione quindi una bipolarità, così cara alla diagnosi psichiatrica, una condizione comunque di ritiro che a che fare con la negazione e l’evitamento. Il trauma determinerebbe quindi un eccesso di emozioni e un difetto di rappresentazioni, un vuoto psichico, dove le capacità di connessione, collegamento e giudizio sono fortemente danneggiate e le azioni intraprese sono quasi esclusivamente dominate dall’emozione. Questo dominio dell’emozione si accompagna all’acquisizione di una specie di empatia primitiva, in cui sono ricercate le caratteristiche emotive dell’altro, i suoi impulsi più nascosti, i suoi gesti inconsapevoli, per controllarne l’azione e il comportamento, riteniamo l’altro un possibile aggressore. Diveniamo diffidenti, sempre più sospettosi, avrete notato quanto siano complessi i nostri contatti sociali odierni, sui marciapiedi o nelle file e nei corridoi dei supermercati. Invece a livello personale, va detto che la caduta delle rappresentazione non è mai totale, il vuoto non è mai completo e assoluto così la scena traumatica si frammenta lasciando pezzi sensoriali, brandelli di scena, che poi vengono modificati dalla fantasia e dai ricordi di copertura, lasciando operanti alcune invarianti, che possono essere considerate, come è stato detto, modalità relazionali fisse, ripetute perché mai bene elaborate e rappresentate, i famosi modelli operativi interni della scuola di Bowbly.
Se il rapporto tra rappresentazione e trauma ci aiuta a capire meglio i fenomeni dissociativi, il problema della identificazione ci aiuta a chiarire le continue inversioni tra vittima e persecutore. Nel trauma si verifica un tipo particolare di identificazione, che la psicoanalisi, sulle orme prima di Ferenczi e di poi di Anna Freud, ha definito di incorporazione. L’oggetto traumatizzante, nell’esperienza traumatica, passa nell’Io del soggetto, si istalla suo malgrado, come appunto un cibo inghiottito senza masticare. Nella maggior parte dei casi le cose vanno come se, nella tempesta dell’impotenza, al soggetto non rimanesse altra possibilità che diventare l’altro: ma questo avviene come un assoggettamento, o come se fosse fare entrare un demone in Sè. Si capisce quindi perché, in questi casi, si parli di identificazione coll’aggressore. Ma sicuramente il fenomeno è ancora più complesso, perché l’altro non è del tutto sentito come aggressore ma come l’inevitabile, il necessario, ciò da cui non si può sfuggire, a cui il soggetto si sente legato in modo irreversibile; si delineano così zone che restano sempre in qualche modo estranee, da un lato sono troppo dentro e lo dominano, ma dall’altro sono troppo fuori, determinando un gioco di presenza e assenza, di dolorosa ambivalenza. L’identificazione coll’aggressore non è una pura fantasia, né un’allucinazione ma possiede aspetti di realtà: come d’altronde ogni processo di identificazione così continuo e a portata di mano nella vita dell’individuo. Nella situazione che stiamo vivendo, il virus,
nella peggiore circostanza si impone al soggetto come una potenza che lo domina, un attrattore che modifica il campo psichico e lo orienta, diventiamo il virus, in questo comportamento emotivo risulta evidente un’identificazione con l’aggressore: ci laviamo, puliamo noi e l’ambiente in cui viviamo in maniera isterico ossessiva e in casi estremi passiamo a forme di autolesionismo fino al suicidio, dove la autorappresentazione della presenza dell’altro, il Covid 19, ci pervade. È noto che Freud attribuì questa tendenza ad un desiderio di controllo e poi ad una pulsione mortifera, diretta a riportare ogni situazione di vita ad uno stadio indifferenziato. Ma è possibile interpretare questa situazione esistenziale anche in un altro senso: permette, al suo esordio una forma velata di conflitto per la sopravvivenza ma che traspare un piacere violento nell’incontro col fantasma, l’amore-odio per il legame invisibile tra vittima e carnefice dà un piacere oscuro; una specie di desiderio di resa dei conti, di sfida, una spinta euforica ad affrontare il pericolo, e al tempo stesso, il piacere di una lotta in cui vittoria e sottomissione, entrambe, riportino finalmente tutta la questione ad una assenza di percezione. La ricerca di un piacere che deriva solo dalla scarica di energia, che alcuni hanno avvicinato ai meccanismi mentali della ricompensa (Gabbard, 2019).
Al centro della situazione del soggetto traumatizzato, vi è perciò l’interruzione della capacità di funzionare in modo unitario ed integrato, in grado di mediare tra se stesso e la realtà e quindi capace di pensare, valutare, reagire, esprimere un proprio punto di vista, uno stato di derealizzazione. Molti di noi avranno sperimentato la condizione di domandarci se quello che stiamo vivendo è realtà o fantasia chiedendoci se tutto questo sia davvero reale o se stiamo vivendo un film o un sogno. Questo stato genera a sua volta la necessità dell’individuo di essere accudito, rassicurato, confortato, soddisfatto nei sui bisogni primari. Nel lavoro terapeutico, queste necessità vengono contenute ed in parte esaudite dal setting e dalla relazione terapeutica, l’analisi continua con l’importanza della significazione, della individuazione e della ricostruzione del materiale mnestico traumatico, dove il reale deve rimane rigorosamente separato da ciò che è fantastico. Questo risulta necessario in quanto la possibilità di simbolizzare si rompe con il trauma. Proprio perché non vi è simbolo non è possibile una interpretazione al di fuori del reale, neppure una narrazione e di conseguenza una storicizzazione, vi è solo, si fa per dire, una “entrata a gamba tesa” nella condizione dinamica esistenziale. Il trauma rimane fuori da una temporalità storica e in analogia con la posizione fenomenologica, risulta necessario dare significato e spessore all’evento traumatico, alle emozioni provate. Ne sono esempio le serie traumatiche che il racconto iniziale degli analizzandi spesso contiene, sono un primo tentativo di storicizzazione, mescolanza di eventi reali e di elementi fantasmatici importanti, anche mitici spesso, ma si tratta di una fase preliminare piuttosto che per il ricordo di qualcosa che è accaduto. Identificare il fantasma frutto dell’esperienza, quando è all’opera, è compito fondamentale della terapia, e smascherarlo rendere un materiale grezzo finalmente comprensibile. Attualmente siamo tutti d’accordo nel ritenere in modo più specifico l’analista come un “trasformatore di memoria” delle esperienze traumatiche rimosse o archiviate in epoca preverbale o successive così che il “fantasma” (persecutorio) creato dal trauma e fonte di sofferenza, sia elaborato e trasformato in ricordo inaugurando cosi percorsi nuovi di pensiero (Racalbuto, 1997). Un ruolo fondamentale nel processo terapeutico è affidato ai sogni, primitivi tentativi di auto-rappresentazione del trauma e della funzione mentale pre-riflessiva. Il sogno può funzionare da serbatoio del ricordo, della memoria sia implicita che dichiarativa e, senza dubbio, canale privilegiato di comunicazione relazionale-analitica.
Fino ad oggi, perché il funzionamento della mente sarà a mio avviso fortemente modificato da questo attuale evento, abbiamo pensato che il mercato potesse darci la felicità e salvarci dalla nostra condizione di inadeguatezza, che invece non è altro che una condizione esistenziale, invece non ha fatto altro che allontanarci dalla nostra interiorità e dalla nostra psiche o anima nel senso greco del termine. Il narcisismo ha dominato il nostro pensiero, nella modernità, il denaro, la crescita sociale e individuale, il dominio sulla natura vissuta come maligna, si sono imposti come pensieri e bisogni di sicurezza primari. Mettendo l’egocentrismo umano al fulcro di tutto, i nostri lettini di analisti, negli ultimi anni, sono stati pieni di queste stati emotivi che alienano l’individuo. Lo strutturalismo psicologico di Lacan e Matteblanco bene ci descrivono l’importanza dell’ambiente nell’orientare e formulare il pensiero. Secondo questa teoria il luogo dell’origine non è l’essere umano, la struttura si pone come genesi, intesa come ciò che preesiste e che anticipa la nascita dell’individuo, determinandolo; il linguaggio, il pensiero, la cultura, la società, l’ambiente, il registro del simbolico sono le strutture in cui l’essere umano è gettato e da cui viene inevitabilmente segnato. L’azione che la struttura esercita sull’essere umano è quella di un filtro, una rete che avvolge l’individuo stesso. Sono le leggi dell’Altro (come si esprimerà poi Lacan), culturali, storiche, familiari, sociali, e che lo condizionano e con le quali il soggetto si deve confrontare e fari i conti, per emergere come soggetto e non come oggetto del mercato e della società.
Abbiamo capito forse solo adesso quanto l’ambiente ci condiziona, relegandoci oggi, a causa delle adeguate ristrettezze per contenere il virus in un confine ambientale e spingendoci ieri in un narcisismo smodato a raggiungere sempre qualcosa di più, ad avere invece che ad essere direbbe Fromm. Spero proprio che riusciremo a fare esperienza consapevole di queste spinte emotive pulsionali che ci hanno orientato negli ultimi vent’anni perlomeno e che la crisi che stiamo attraversando sia veramente un’opportunità di cambiamento.
Purtroppo anche l’informazione è disorientata, l’impatto con la pandemia è stato devastante, e si esprime a senso unico con una totale sfiducia nel presente, anche le chiese sono chiuse, il Papa affranto è solo in piazza san Pietro, piange davanti al Cristo, la speranza è morta. L’immagine del Papa solo con il Santissimo rotta solo da un sovrapposto suono delle campane e delle ambulanze in una totale confusione, ci ha emozionato fortemente e il suo ricordo ci angoscia ancora ora come all’ora, facendoci piombare una condizione di indeterminatezza. Ambulanze, bare, il contagio mortifero, bollettini di morte, le persone sono terrorizzate “impanicate”, tutto è orientato verso la morte. Paura degli altri, nessuna speranza ma disperazione, siamo impauriti, sterili, impotenti tutto questo ci è dato dalla paura della morte. Dobbiamo combattere il nemico, ce lo abbiamo è il Virus, questa è e deve essere la l’espressione della nostra vitalità, la pulsione di vita che si oppone alla pulsione di morte (Freud 1920), questo ci fa sentire vivi. Può sembrare un paradosso ma la consapevolezza della morte ci fa amare la vita: se consideriamo come vera la possibilità di morire, contrapposta ad un narcisismo illusorio di potenza e invulnerabilità, apprezziamo la nostra vita e tendiamo a rendere importante ogni momento vissuto. Percepiamo finalmente, mi viene da dire, l’impersistenza e inconsistenza che è consapevolezza della nostra esistenza, per anni ci siamo illusi, aggrediti dal narcisismo di essere immortali, ma la conoscenza della morte invece ci permette una spinta verso la vita. Conoscere l’inconscio, che sempre ci muove, ci permette di non esserne aggrediti, e in questo caso, di vivere assaporando ogni attimo della nostra esistenza. Nel mezzo di questa crisi, penso che l’importanza del fare dell’agire ci aiuta ad andare avanti, a rimanere positivi e a non cedere all’ansia e alla paura. Chiunque si prenda cura del mondo in cui viviamo, ne sono esempio medici ed infermieri, e che lo fa andare avanti ogni giorno è davvero vitale e prezioso. La vita adesso è reclusa e sospesa, l’uomo si trova per la prima volta ad affrontare nella sua esistenza questa condizione, forse ci potrebbero bene insegnare come fare a superare questo momento chi ha avuto esperienze di forme di reclusione. Ma voglio ricordare che le funzioni di ricarica e di mentalizzazione del pensiero sono numerose e continuamente a nostra disposizione se lo vogliamo. Il sonno è il più importante, ognuno di noi avrà sperimentato come riposiamo di più lontano dal passato prossimo dove la vita frenetica era uno standard. Un altro è il sogno e il pensiero onirico della veglia (Bion, 1972), noi sogniamo non solo di notte ma anche durante lo stato di veglia, processiamo i nostri pensieri, sebbene questo lavorio incessante passi inosservato nei numerosi processi di elaborazione del pensiero. Infine il corpo, che purtroppo ora è limitato nella sua azione di scarica economica e non dimentichiamoci la sessualità. Ecco questi processi di metabolizzazione ci possono aiutare a stare meglio, perseguendoli, in condizioni di cattività. Dovremo attrezzarci perché il panorama che ci propone davanti avrà bisogno di forti dosi di resilienza, stiamo vivendo un cambiamento epocale, nello stile di vita, nella società, nella cultura, nei modi di stare insieme. La qualità della nostra vita cambierà, il lavoro avrà regole diverse e ci saranno lavori diversi, i nostri consumi cambieranno, cambieranno i rapporti familiari e modi di confrontarci, questo stravolgimento può assomigliare, alla nascita della civiltà o alla rivoluzione industriale. Finirà la globalizzazione almeno come l’abbiamo concepita e vissuta fino a ieri, perché ormai si è già trasformata, a proposito di mutazioni. E la normalità, per come la conoscevamo, è momentaneamente scomparsa e forse lo sarà per sempre. Una cena fuori, un aperitivo con gli amici, un weekend a mare o a sciare: niente di tutto questo è e sarà più possibile, gli eventi, la scuola, le università e le riunioni come le abbiamo conosciute, infatti, si sono già digitalizzate grazie alle piattaforme che tutti abbiamo imparato a conoscere. Sarà impossibile stare insieme in contesti collettivi, pensiamo allo sport e ai palazzetti e agli stadi, ai cinema, perché non sarà opportuno sul piano epidemiologico ma inoltre questo ci creerà angoscia, motivata dalla presenza di un nemico invisibile trasposto dall’uomo che distrugge le nostre sicurezze. Lo smartworking sperimentato in emergenza cambierà il modo di lavorare in maniera permanente. I trasporti e la mobilità cambierà perché il nostro modo di muoverci sarà trasformato per esigenze di distanziamento sociale, pensiamo agli autobus, alle metropolitane. I modi di viaggiare saranno deformati, delle nazioni per lungo tempo continueranno a mantenere le frontiere chiuse per timore del famoso contagio di ritorno. L’emergenza coronavirus ci ha dato la possibilità di conoscere la tecnologia per comunicare, è vero la conoscevamo anche prima ma adesso ha preso il posto dell’altra quella della vicinanza corporea. La tecnica ci ha liberato dal peso del contatto ma tutto questo ha lasciato come rovescio della medaglia l’assenza del contatto. Ovviamente come potremo sopportare di vivere in un mondo virtuale full-time escludendo il corpo. Dopo la diffusione del Coronavirus su scala globale, la paura del contatto potrebbe essere stigmatizzata, e potrebbe portare le persone a prendere le distanze dagli altri sempre di più. Se ci fate caso abbiamo una diffidenza nell’incrociare qualcuno sui marciapiedi anche se abbiamo la mascherina, ci sentiamo insicuri in pericolo, figuriamoci in un paese estero cosa potrebbe succedere. Si arriverà a non poter più andare nei centri commerciali affollati, come stile di vita che ci aveva affascinato per anni. Quali limiti e cambiamenti dovremo ancora affrontare o stiamo già affrontando. Il mondo globalizzato che abbiamo conosciuto in cui le merci e gli individui si spostavano senza limiti non esisterà più e questo ci calerà in una dimensione diversa forse nazionale ad interazione moderata, tutelandoci attraverso la possibilità di sperimentare il tracciamento digitale delle persone ma che ci pone davanti alla limitazione anche psicologica della nostra privacy. Ci manca andare nei negozi, nei parchi, vivere le avventure di tutti i giorni e passare il tempo coi nostri amici. La pandemia da coronavirus ha cambiato non solo le nostre abitudini ma anche i nostri desideri. Abbiamo nuovi bisogni e altri punti di riferimento maturati nell’emergenza, cambiano i sentimenti e gli interessi. L’uomo è passato da un tradizionale frenesia, soprattutto per le persone che vivono la delle grandi città, al ritorno all’immobilità e al silenzio. Siamo tutti stati sorpresi ritrovandoci all’improvviso confinati in casa, in questa situazione tutti abbiamo assaggiato la possibilità, anche per pochi secondi, del sentire la nostra interiorità, e questo non è così male ma a volte ci crea un vuoto difficile da colmare. Più del movimento, più della voglia di uscire, ci manca la vicinanza, il contatto fisico, e questa è la cosa più difficile però da affrontare: il desiderio di essere abbracciati, toccati, di dare e ricevere baci, di sorridere a qualcuno e di vivere un’esperienza fisica. Sono convinto che questo accadimento abbia risvegliato in moltissime persone, perlomeno, una riflessione riguardo all’importanza della corporietà. Ora dobbiamo sfruttare al massimo la nostra dimensione virtuale e ricordare il potere magico della connessione che si può stabilire con una lunga email, con una lunga telefonata o una videochiamata. Siamo connessi, permettetemi di dire collegati, ed entriamo in contatto anche più sentito con l’altro ed aspettiamo adesso un collegamento con molta più felicità e desiderio, rispetto a prima. Penso che in questo momento la tecnologia sia un salva-vita. In tempi ordinari ci può anche allontanare dall’avere un contatto fisico, ma quando questo non è possibile, è l’unica cosa che ci resta: dobbiamo essere grati a internet, in questo momento. Oggi è difficile vedere delle opportunità da questa tragedia, ma qualche lezione dobbiamo impararla. Impareremo da questo periodo di isolamento che la vulnerabilità ben conosciuta può essere una virtù: impareremo ad essere più umani, che chiunque, in qualsiasi paese del mondo, in questo momento sta provando le stesse paure e gli stessi desideri. Le regole del distanziamento sociale, ci fanno toccare con mano che la salute del singolo dipende dalla salute dell’altro, per noi operatori di salute mentale è qualcosa che palpiamo ogni giorno e che troviamo impresso nelle personalità di ogni nostro paziente. Siamo tutti preoccupati per i nostri familiari e ci mancano i nostri amici: ci si sente soli, ma questa sensazione è anche fortemente connessa alla consapevolezza del fatto che, alla fine, non siamo poi così diversi e questo senso di fraternità ci porta alla condivisione del dolore. I pazienti sempre ci insegnano qualcosa se li sappiamo ascoltare, qualcuno di loro mi dice: “in fondo mi sento adesso come gli altri, traumatizzato, isolato, sofferente e questa condivisone mi fa stare meglio” oppure “in questa quarantena non sto così male, sto volentieri in casa, anzi mi sento protetto, finalmente posso rinunciare ai miei impegni, senza sentirmi in colpa”. Comunque vecchi bisogni si riaffacciano sempre in momenti di forte stress, faccio riferimento a necessità primarie tipo protezione e accudimento, soprattutto se mai in fondo risolte: così cerchiamo di colmare le distanze soprattutto in famiglia, le attenzioni maggiori sono legate alla costruzione del senso di appartenenza al nucleo, che passa per “la realizzazione di cibo fatto in casa” come biscotti, pane o pizza e le attività da fare “tutti insieme” come visione di film o giochi. Quindi il nutrimento e la dimensione orale ci consola ancora, il pensare al cibo e al sostentamento ci infonde un senso di sicurezza, e l’immagine dei film e dei giochi ci conforta come una madre e ci avvicina alla fantasia e ai sogni notturni e diurni. Attraverso questi sentimenti, questi impegni casalinghi, ci sentiamo così meno soli e parte di qualcosa. E’ questa la pulsione di vita che si oppone alla pulsione di morte della solitudine. Le persone possono sentirsi meno alienate e possiamo tutti influenzarci, nel senso buono del termine, a vicenda, aprendoci agli altri. Ci troviamo in questa situazione insieme, e quello che fa la differenza è la solidarietà, questo non è il momento dello stigma, dei dogmi e dell’esclusione, è il tempo del restare attenti a capire questi accadimenti e a non esserne inondati. E partendo da queste esperienze si può ricostruire quello che è rotto o apparentemente irreparabile. Credo che la cura all’isolamento sta nel diventare amici prima di se stessi e poi degli altri. La solitudine è dolorosa sul piano psicologico, ci mette in condizione di tornare bambini soli, esclusi dall’affetto, facendoci sperimentare un senso profondo di angoscia, anche qui dobbiamo essere consapevoli che fa parte dell’umano: significa che sei vivo, e che hai un cuore.
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