Covid 19, una prospettiva psicoanalitica.

L’emergenza sanitaria legata al coronavirus ha stravolto prima la Cina, ora l’Italia e tutti altri Paesi europei. Il virus corre veloce come le nostre merci in  tempi di globalizzazione e da Wuhan si è trasferito negli Stati Uniti attraversando tutta l’Europa nessuno escluso, speriamo che rallenti in Africa per ovvie ragioni sanitarie. Viviamo un trauma uno shock paragonabile, dopo 75 anni, ad una situazione di guerra. Abbiamo bisogno tutti di produrre una elaborazione di questo vissuto e la psicoanalisi spero che darà il suo contributo. D’altronde dalla sua nascita ad oggi la psicoanalisi ha a avuto sempre a che fare con il trauma: dalle intuizioni di Freud e Ferenczi sulla psicodinamica del trauma, sull’importanza delle difese dell’Io contro l’angoscia, alle teorizzazioni di oggi con studi neuropsicoanalitici sulle molteplicità dei sistemi di memoria.  Tutto questo background ci permette di evidenziare traumi parziali, traumi da sforzo e  traumi cumulativi, traumi schermo e retrospettivi, traumi fantasma e traumi provocati, traumi riattivati e traumi primari e ancora tra traumi a mano umana e traumi a catastrofe naturale. Io penso però che questa frammentarietà descrittiva trova un denominatore comune in tutte quelle esperienze in cui il soggetto vive la possibilità di una sua morte, psico-fisica: non c’è trauma se non c’è esperienza di morte (Lingiardi 2008, Van der Kolk 1996). Per morte si intende qui una brusca interruzione del flusso della vita psichica, una modifica profonda, per crollo e/o contrazione, dei parametri spazio-temporali che l’esperienza traumatica prevede: un senso profondo di disperazione di passività e di inermità di fronte a forze esogene che si abbattono sull’individuo privandolo di uno spazio fisico-psichico. E’ l’esperienza del mondo esterno che si impone all’individuo. Tutto trova conferma e stimolo  con importanti riflessi sulla clinica, infatti il trauma risulta la causa principale delle ragioni del disagio psichico, del sintomo, della sofferenza psichica e anche la fantasmatizzazione, secondo me, non è altro che una condizione successiva all’evento reale stesso. Di conseguenza ci troviamo costantemente di fronte a esperienze che tendono a ripetersi senza essere ricordate e a noi analisti è richiesto di cercare gli strumenti perché possano essere ricordate, tollerate, pensate e trasformate. Traumatici sono gli eventi, come quello che stiamo vivendo per la paura del Covid 19 e per le sue conseguenze, che mettono fuori gioco l’integrità del soggetto, ponendolo in maniera momentanea o cronica in condizioni di  non funzionare in modo unitario e coerente. Purtroppo il trauma colpisce lo sviluppo della funzione riflessiva e delle capacità metacognitive disturbando la capacità narrativa e la competenza autobiografica. L’esperienza traumatica, causa e effetto, di non percepirsi esistente e padrone di se stesso, favorisce la colonizzazione da parte dei modelli di funzionamento errati impedendo la costruzione di una propria soggettività. Non sto qui a citare psicoanalisti che si sono occupati del trauma, cito: Bion, Winnicott, Odgen e altri ma tutti fanno riferimento e lamentano la rottura dei contenitori psichici. A dire il vero anche Freud (1925) aveva fatto espresso riferimento  al concetto di angoscia che genera un senso di confusione, di disperazione, e che concerne l’esperienza di impotenza.

Il trauma si propone come una violenta tempesta, che sconvolge un piccolo paese e che lascia segni irreparabili a tutte le operazioni successive di adattamento – nervosismo, proiezioni, rimozioni, dissociazioni, ricordi di copertura e così via – sono tentativi per circoscrivere questo fenomeno incontrollato. Centrale è il ruolo della dissociazione nelle sue varie manifestazioni fenomeniche. Ferenczi (1932) per primo ci parla autoscissione narcisistica come processo difensivo che determina una parte del soggetto che sa e vede tutto ma non sente e un’altra parte che soffre e non capisce ed è impotente e inerme nel suo dolore. L’effetto riscontrato nella patologia è di un Io che ha subito una consistente umiliazione creando scarti, zone morte nella psiche e nel soma, paralisi del pensiero e dell’affettività, depressione per privazione di oggetto, perversioni. Il processo dissociativo permette che pensieri, sentimenti, ricordi e percezioni delle esperienze traumatiche vengano separati, consentendo alla vittima di funzionare come se il trauma non fosse avvenuto. Il risultato a questa soluzione è quello di vivere sempre all’erta, per un pericolo imminente e in secondo luogo  provoca una difficoltà nella soggettivazione del vissuto, lasciando spazio a fratture nella stessa organizzazione del Sé. Un altro adattamento versatile posto in essere nel trauma è  l’apres coup, cioè il trauma attuale continuamente richiama e riattiva il trauma antico, e ripropone e modifica appunto la scena originaria. Un evento emotivamente significativo rimane nella psiche,  non producendo effetti patogeni fintantoché le condizioni maturative o altri e ben più tardivi eventi non convertano retroattivamente il primo evento in trauma; solo in questo momento si manifestano le sue conseguenze patogene. Non si tratta qui soltanto di un’azione differita, di una causa che rimane latente finché abbia occasione di manifestarsi, ma di un’azione causale retroattiva, dal presente verso il passato. L’introduzione dell’apres coup (a posteriori) segna il momento in cui Freud (1920), l’ideatore,  abbandona il modello della causalità meccanicista e della temporalità lineare passato-presente a favore di un concetto dialettico della causalità con un modello fluido della temporalità, dove futuro e passato si condizionano e acquisiscono reciprocamente senso nella strutturazione del presente. Riassumendo l’esegesi freudiana, il problema del trauma si colloca su due assi: della pulsione di morte, dove il trauma può essere descritto come un’invasione tanatica, e dell’eziologia dell’a posteriori, e il trauma ci appare come una costruzione, della ripetizione e della temporalità. Secondo questa concettualizzazione avremo traumi disorganizzanti, invasivi e paralizzanti e all’altro estremo traumi costruiti in una storicizzazione temporale aperta. Nel mezzo troveremo tentativi più o meno mancati di legare l’invasione tanatica con la ripetizione. Freud giunse a formulare l’ipotesi della pulsione di morte a causa dei fenomeni ripetitivi, che rappresentano il tentativo più elementare di legare la pulsione di morte impedendole di raggiungere l’annientamento. Quindi, dice Freud, chiamiamo traumatica, una situazione vissuta di impotenza, a cui l’individuo risponde con una reazione originaria d’angoscia. Ritrovandosi di fronte a una situazione di pericolo, che viene  riconosciuta come la situazione precedente di impotenza, l’Io del soggetto, che ha subito passivamente il trauma, riproduce attivamente, ma in forma attenuata, l’angoscia che funge da segnale d’allarme. 

Una interessante e attuale diversificazione tra traumi a mano umana e traumi a catastrofe naturale viene proposta da Mucci (2014) e Liotti (2011), secondo questi autori ci sarebbe una diversità nella clinica in quanto la catastrofe naturale non causerebbe dissociazione mentre questa risulterebbe una reazione tipica della traumatizzazione primaria (Schore, 2012), invece l’altra riguarderebbe sostanzialmente un iperarousal. Il secondo genere di traumi, catastrofi naturali, può causare PTSD ma non disturbo di personalità che si sviluppano col tempo in una relazione e una famiglia disfunzionale, con dei presupposti di vulnerabilità genetica. Mi sento di integrare queste aspetti osservando che si verifica dissociazione nei traumi a mano umana in quanto si rompe la diade empatica, la connessione io-tu, e la distruzione idealizzata del rapporto con il fantasma, tanto importante nella relazione di attaccamento ed infantile, ma non la ritengo esclusiva, aspetti dissociativi sono presenti anche nei traumi a catastrofe naturale. Continuando noto che nei traumi a catastrofe naturale sono presenti reazioni tipiche di disturbo postraumatico tipo flashback, incubi ricorrenti, memorie intrusive dell’avvenimento traumatico ma che queste risposte non sono esclusive dei traumi naturali ma si trovano anche nei traumi primari intesi come quelli relazionali. D’altronde Freud (1920) ci parla di coazione a ripetere, un tentativo  di elaborare il trauma attraverso ricordi parziali, sogni ricorrenti,  dove il soggetto traumatizzato non solo riporta all’infinito la solita sequenza nel tentavo di elaborarla ma addirittura la ricerca, secondo una modalità perturbante in certo senso traumatofilica (Correale, 2010), non evidenziando differenze ma solo omogeneità di risposta. Addirittura, secondo il mio punto di vista, nel trauma generato da Covid 19 si vengono a determinare ambedue le condizioni, quella più evidente del trauma a catastrofe naturale, l’altra quella legata al tradimento nell’attaccamento, più strisciante in quanto risulta emergere una sorta di negligenza, imperizia nell’affrontare il problema dall’estabilishment mondiale.

In queste situazioni, così ben descritte, il soggetto vive l’esperienza di essere completamente dominato da qualcosa fuori di lui, qualcosa che lo tiene sotto le sue grinfie, che risponde a leggi proprie e sconosciute e che non ha col soggetto altro rapporto che quello di una forza brutale e di morte. L’opposizione, che risulta sempre un accomodamento, produce anche una condizione di eccitamento euforico reattivo, che ci allontana dalla condizione esperenziale spaventosa e sovrastante, che ci permette di non pensare a quello che ci sta accadendo. La mancanza di rappresentazioni reperibili fa sì che il soggetto cada in preda ad aspetti parziali della scena, che esercitano su di lui un effetto ipnotico. Questo stato ipnoide già osservato Breuer e Ferenczi favorisce l’isolamento dell’accaduto in una bolla emotiva, dobbiamo nel primo periodo favorire questa risposta naturale, producendo comportamenti ripetitivi e routinari: fare ginnastica tutti i giorni, leggere sempre per lo stesso numero di ore, andare a letto sempre alla stessa ora, insomma cercare di fare sempre le stesse cose e rendere le giornate tutte uguali, regolare tutto e soprattutto il sonno. Così diamo la possibilità ad altre macro aree di crescere, sono coraggio e orgoglio, temi fondamentali come abbiamo visto manifesti, in cori alle finestre, in un particolare rinnovato e forte senso di fierezza patriottica, uno stringersi intorno a valori comuni di fratellanza, di solidarietà e al  concetto di comunità e bene collettivo.  Purtroppo però, piano piano tutto questo lascia il posto, come stiamo facendo esperienza, ad un senso depressivo, dovuto alla nostalgia di un oggetto perduto, ad una condizione posseduta prima del Covid. Si innesca così una inversione di tendenza e si fa strada una condizione di tristezza e di inermità. Ad una veloce osservazione, i due modi di pensare l’esperienza di morte traumatica sono inconciliabili: da un lato un flusso di eccitamento pauroso e distruttivo, dall’altro un’impotenza paralizzante mortifera, con in  mezzo una condizione ipnoide, ma ad un più attento esame, però, i due poli sono più vicini di quanto non sembri. La passività non è mai priva di un suo potere oscuro di fascinazione

e l’eccitamento non è mai estraneo a un sentirsi trascinato e in balia di qualcosa. Dall’euforia alla depressione quindi una bipolarità, così cara alla diagnosi psichiatrica, una condizione comunque di ritiro che a che fare con la negazione  e l’evitamento. Il trauma determinerebbe quindi un eccesso di emozioni e un difetto di rappresentazioni, un vuoto psichico, dove le capacità di connessione, collegamento e giudizio sono fortemente danneggiate e le azioni intraprese sono quasi esclusivamente dominate dall’emozione. Questo dominio dell’emozione si accompagna all’acquisizione di una specie di empatia primitiva, in cui sono ricercate le caratteristiche emotive dell’altro, i suoi impulsi più nascosti, i suoi gesti inconsapevoli, per controllarne l’azione e il comportamento, riteniamo l’altro un possibile aggressore. Diveniamo diffidenti, sempre più sospettosi, avrete notato quanto siano complessi i nostri contatti sociali odierni, sui marciapiedi o nelle file e nei corridoi dei supermercati. Invece a livello personale, va detto che la caduta delle rappresentazione non è mai totale, il vuoto non è mai completo e assoluto così la scena traumatica si frammenta lasciando pezzi sensoriali, brandelli di scena, che poi vengono modificati dalla fantasia e dai ricordi di copertura, lasciando operanti alcune invarianti, che possono essere considerate, come è stato detto, modalità relazionali fisse, ripetute perché mai bene elaborate e rappresentate, i famosi modelli operativi interni della scuola di Bowbly. 

Se il rapporto tra rappresentazione e trauma ci aiuta a capire meglio i fenomeni dissociativi, il problema della identificazione ci aiuta a chiarire le continue inversioni tra vittima e persecutore. Nel trauma si verifica un tipo particolare di identificazione, che la psicoanalisi, sulle orme prima di Ferenczi e di poi di Anna Freud, ha definito di incorporazione. L’oggetto traumatizzante, nell’esperienza traumatica, passa nell’Io del soggetto, si istalla suo malgrado, come appunto un cibo inghiottito senza masticare. Nella maggior parte dei casi le cose vanno come se, nella tempesta dell’impotenza, al soggetto non rimanesse altra possibilità che diventare l’altro: ma questo avviene come un assoggettamento, o come se fosse fare entrare un demone in Sè. Si capisce quindi perché, in questi casi, si parli di  identificazione coll’aggressore. Ma sicuramente il fenomeno è ancora più complesso, perché l’altro non è del tutto sentito come aggressore ma come l’inevitabile, il necessario, ciò da cui non si può sfuggire, a cui il soggetto si sente legato in modo irreversibile; si delineano così zone che restano sempre in qualche modo estranee, da un lato sono troppo dentro e lo dominano, ma dall’altro sono troppo fuori, determinando un gioco di presenza e assenza, di dolorosa ambivalenza. L’identificazione coll’aggressore non è una pura fantasia, né un’allucinazione ma possiede aspetti di realtà: come d’altronde ogni processo di identificazione così continuo e a portata di mano nella vita dell’individuo. Nella situazione che  stiamo vivendo, il virus,

nella peggiore circostanza si impone al soggetto come una potenza che lo domina, un attrattore che modifica il campo psichico e lo orienta, diventiamo il virus, in questo comportamento emotivo risulta evidente un’identificazione con l’aggressore: ci laviamo, puliamo noi e l’ambiente in cui viviamo in maniera isterico ossessiva e in casi estremi passiamo a forme di autolesionismo fino al suicidio, dove la autorappresentazione della presenza dell’altro, il Covid 19, ci pervade. È noto che Freud attribuì questa tendenza ad un desiderio di controllo e poi ad una pulsione mortifera, diretta a riportare ogni situazione di vita ad uno stadio indifferenziato. Ma è possibile interpretare questa situazione esistenziale anche in un altro senso: permette, al suo esordio una forma velata di conflitto per la sopravvivenza ma che traspare un piacere violento nell’incontro col fantasma, l’amore-odio per il legame invisibile tra vittima e carnefice dà un piacere oscuro; una specie di desiderio di resa dei conti, di sfida, una spinta euforica ad affrontare il pericolo, e al tempo stesso, il piacere di una lotta in cui vittoria e sottomissione, entrambe, riportino finalmente tutta la questione ad una assenza di percezione. La ricerca di un piacere che deriva solo dalla scarica di energia, che alcuni hanno avvicinato ai meccanismi mentali della ricompensa (Gabbard, 2019). 

Al centro della situazione del soggetto traumatizzato, vi è perciò l’interruzione della capacità di funzionare in modo unitario ed integrato, in grado di mediare tra se stesso e la realtà e quindi capace di pensare, valutare, reagire, esprimere un proprio punto di vista, uno stato di derealizzazione. Molti di noi avranno sperimentato la condizione di domandarci se quello che stiamo vivendo è realtà o fantasia chiedendoci se tutto questo sia davvero reale o se stiamo vivendo un film o un sogno. Questo stato genera a sua volta la necessità dell’individuo di essere accudito, rassicurato, confortato, soddisfatto nei sui bisogni primari. Nel lavoro terapeutico, queste necessità vengono contenute ed in parte esaudite dal setting e dalla relazione terapeutica, l’analisi continua con l’importanza della significazione, della individuazione e della ricostruzione del materiale mnestico traumatico, dove il reale deve rimane rigorosamente separato da ciò che è fantastico. Questo risulta necessario in quanto la possibilità di simbolizzare si rompe con il trauma. Proprio perché non vi è simbolo non è possibile una interpretazione al di fuori del reale, neppure una narrazione e di conseguenza una storicizzazione, vi è solo, si fa per dire, una “entrata a gamba tesa” nella condizione dinamica esistenziale. Il trauma rimane fuori da una temporalità storica e in analogia con la posizione fenomenologica, risulta necessario dare significato e spessore all’evento traumatico, alle emozioni provate. Ne sono esempio le serie traumatiche che il racconto iniziale degli analizzandi spesso contiene, sono un primo tentativo di storicizzazione, mescolanza di eventi reali e di elementi fantasmatici  importanti, anche mitici spesso, ma si tratta di una fase preliminare piuttosto che per il ricordo di qualcosa che è accaduto. Identificare il fantasma frutto dell’esperienza, quando è all’opera, è compito fondamentale della terapia, e smascherarlo rendere un materiale grezzo finalmente comprensibile. Attualmente siamo tutti d’accordo nel ritenere in modo più specifico l’analista come un “trasformatore di memoria” delle esperienze traumatiche rimosse o archiviate in epoca preverbale o successive così che il “fantasma” (persecutorio) creato dal trauma e fonte di sofferenza, sia elaborato e trasformato in ricordo inaugurando cosi percorsi nuovi di pensiero (Racalbuto, 1997). Un ruolo fondamentale nel processo terapeutico è affidato ai sogni, primitivi tentativi di auto-rappresentazione del trauma e della funzione mentale pre-riflessiva. Il sogno può funzionare da serbatoio del ricordo, della memoria sia implicita che dichiarativa e, senza dubbio, canale privilegiato di comunicazione relazionale-analitica.

 Fino ad oggi, perché il funzionamento della mente sarà a mio avviso fortemente modificato da questo attuale evento, abbiamo pensato che il mercato potesse darci la felicità e salvarci dalla nostra condizione di inadeguatezza, che invece non è altro che una condizione esistenziale, invece non ha fatto altro che allontanarci dalla nostra interiorità e dalla nostra psiche o anima nel senso greco del termine. Il narcisismo ha dominato il nostro pensiero, nella modernità, il denaro, la crescita sociale e individuale, il dominio sulla natura vissuta come maligna, si sono imposti come pensieri e bisogni di sicurezza primari. Mettendo l’egocentrismo umano al fulcro di tutto, i nostri lettini di analisti, negli ultimi anni, sono stati pieni di queste stati emotivi che alienano l’individuo. Lo strutturalismo psicologico di Lacan e Matteblanco  bene ci descrivono l’importanza dell’ambiente nell’orientare e formulare il pensiero. Secondo questa teoria il luogo dell’origine non è l’essere umano, la struttura si pone come genesi, intesa come ciò che preesiste e che anticipa la nascita dell’individuo, determinandolo; il linguaggio, il pensiero, la cultura, la società, l’ambiente, il registro del simbolico sono le strutture in cui l’essere umano è gettato e da cui viene inevitabilmente segnato. L’azione che la struttura esercita sull’essere umano è quella di un filtro, una rete che avvolge l’individuo stesso. Sono le leggi dell’Altro (come si esprimerà poi Lacan), culturali, storiche, familiari, sociali, e che lo condizionano e con le quali il soggetto si deve confrontare e fari i conti, per emergere come soggetto e non come oggetto del mercato e della società.

Abbiamo capito forse solo adesso quanto l’ambiente ci condiziona, relegandoci oggi, a causa delle adeguate ristrettezze per contenere il virus in un confine ambientale e spingendoci ieri in un narcisismo smodato a raggiungere sempre qualcosa di più, ad avere invece che ad essere direbbe Fromm. Spero proprio che riusciremo a fare esperienza consapevole di queste spinte emotive pulsionali che ci hanno orientato negli ultimi vent’anni perlomeno e che la crisi che stiamo attraversando sia veramente un’opportunità di cambiamento. 

Purtroppo anche l’informazione è disorientata, l’impatto con la pandemia è stato devastante, e si  esprime a senso unico con una totale sfiducia nel presente, anche le chiese sono chiuse, il Papa affranto è solo in piazza san Pietro, piange davanti al Cristo, la speranza è morta. L’immagine del Papa solo con il Santissimo rotta solo da un sovrapposto suono delle campane e delle ambulanze in una totale confusione, ci ha emozionato fortemente e il suo ricordo ci angoscia ancora ora come all’ora, facendoci piombare una condizione di indeterminatezza. Ambulanze, bare, il contagio mortifero, bollettini di morte, le persone sono terrorizzate “impanicate”, tutto è orientato verso la morte. Paura degli altri, nessuna speranza ma disperazione, siamo impauriti, sterili, impotenti tutto questo ci è dato dalla paura della morte. Dobbiamo combattere il nemico, ce lo abbiamo è il Virus, questa è e deve essere la l’espressione della nostra vitalità, la pulsione di vita che si oppone alla pulsione di morte (Freud 1920), questo ci fa sentire vivi. Può sembrare un paradosso ma la consapevolezza della morte ci fa amare la vita: se consideriamo come vera la possibilità di morire, contrapposta ad un narcisismo illusorio di potenza e invulnerabilità, apprezziamo la nostra vita e tendiamo a rendere importante ogni momento vissuto. Percepiamo finalmente, mi viene da dire, l’impersistenza e inconsistenza che è consapevolezza della nostra esistenza, per anni ci siamo illusi, aggrediti dal narcisismo di essere immortali, ma la conoscenza della morte invece ci permette una spinta verso la vita. Conoscere l’inconscio, che sempre ci muove, ci permette di non esserne aggrediti, e in questo caso, di vivere assaporando ogni attimo della nostra esistenza. Nel mezzo di questa crisi, penso che l’importanza del fare dell’agire ci aiuta ad andare avanti, a rimanere positivi e a non cedere all’ansia e alla paura. Chiunque si prenda cura del mondo in cui viviamo, ne sono esempio medici ed infermieri, e che lo fa andare avanti ogni giorno è davvero vitale e prezioso. La vita adesso è reclusa e sospesa, l’uomo si trova per la prima volta ad affrontare nella sua esistenza questa condizione, forse ci potrebbero bene insegnare come fare a superare  questo momento chi ha avuto esperienze di forme di reclusione. Ma voglio ricordare che le funzioni di ricarica e di mentalizzazione del pensiero sono numerose e continuamente a nostra disposizione se lo vogliamo. Il sonno è il più importante, ognuno di noi avrà sperimentato come riposiamo di più lontano dal passato prossimo dove la vita frenetica era uno standard. Un altro è il sogno e il pensiero onirico della veglia (Bion, 1972),  noi sogniamo non solo di notte ma anche durante lo stato di veglia, processiamo i nostri pensieri, sebbene questo lavorio incessante passi inosservato nei numerosi processi di elaborazione del pensiero. Infine il corpo, che purtroppo ora è limitato nella sua azione di scarica economica e non dimentichiamoci la sessualità. Ecco questi processi di metabolizzazione ci possono aiutare a stare meglio, perseguendoli, in condizioni di cattività. Dovremo attrezzarci perché il panorama che ci propone davanti avrà bisogno di forti dosi di resilienza, stiamo vivendo un cambiamento epocale, nello stile di vita, nella società, nella cultura, nei modi di stare insieme. La qualità della nostra vita cambierà, il lavoro avrà regole diverse e ci saranno lavori diversi, i nostri consumi cambieranno, cambieranno i rapporti familiari e modi di confrontarci, questo stravolgimento può assomigliare, alla nascita della civiltà o alla rivoluzione industriale. Finirà la globalizzazione almeno come l’abbiamo concepita e vissuta fino a ieri, perché ormai si è già trasformata, a proposito di mutazioni. E la normalità, per come la conoscevamo, è momentaneamente scomparsa e forse lo sarà per sempre. Una cena fuori, un aperitivo con gli amici, un weekend a mare o a sciare: niente di tutto questo è e sarà più possibile, gli eventi, la scuola, le università e le riunioni come le abbiamo conosciute, infatti, si sono già digitalizzate grazie alle piattaforme che tutti abbiamo imparato a conoscere. Sarà impossibile stare insieme in contesti collettivi, pensiamo allo sport e ai palazzetti e agli stadi, ai cinema, perché non sarà opportuno sul piano epidemiologico ma inoltre questo ci creerà angoscia, motivata dalla presenza di un nemico invisibile trasposto dall’uomo che distrugge le nostre sicurezze. Lo smartworking sperimentato in emergenza cambierà il modo di lavorare in maniera permanente. I  trasporti e la mobilità cambierà perché il nostro modo di muoverci sarà trasformato per esigenze di distanziamento sociale, pensiamo agli autobus, alle metropolitane. I modi di viaggiare saranno deformati, delle nazioni per lungo tempo continueranno a mantenere le frontiere chiuse per timore del famoso contagio di ritorno. L’emergenza coronavirus ci ha dato la possibilità di conoscere la tecnologia per comunicare, è vero la conoscevamo anche prima ma adesso ha preso il posto dell’altra quella della vicinanza corporea. La tecnica ci ha liberato dal peso del contatto ma tutto questo ha lasciato come rovescio della medaglia l’assenza del contatto. Ovviamente come potremo sopportare di vivere in un mondo virtuale full-time escludendo il corpo. Dopo la diffusione del Coronavirus su scala globale, la paura del contatto potrebbe essere stigmatizzata, e potrebbe portare le persone a prendere le distanze dagli altri sempre di più. Se ci fate caso abbiamo una diffidenza nell’incrociare qualcuno sui marciapiedi anche se abbiamo la mascherina, ci sentiamo insicuri in pericolo, figuriamoci in un paese estero cosa potrebbe succedere. Si arriverà a non poter più andare nei centri commerciali affollati, come stile di vita che ci aveva affascinato per anni. Quali limiti e cambiamenti dovremo ancora affrontare o stiamo già affrontando. Il mondo globalizzato che abbiamo conosciuto in cui le merci e gli individui si spostavano senza limiti non esisterà più e questo ci calerà in una dimensione diversa forse nazionale ad interazione moderata, tutelandoci attraverso la possibilità di sperimentare il tracciamento digitale delle persone ma che ci pone davanti alla limitazione anche psicologica della nostra privacy. Ci manca andare nei negozi, nei parchi, vivere le avventure di tutti i giorni e passare il tempo coi nostri amici. La pandemia da coronavirus  ha cambiato non solo le nostre abitudini ma anche i nostri desideri. Abbiamo nuovi bisogni e altri punti di riferimento maturati nell’emergenza, cambiano i sentimenti e gli interessi. L’uomo è passato da un tradizionale frenesia, soprattutto per le persone che vivono la delle grandi città, al ritorno all’immobilità e al silenzio. Siamo tutti stati sorpresi ritrovandoci all’improvviso confinati in casa, in questa situazione tutti abbiamo assaggiato la possibilità, anche per pochi secondi, del sentire la nostra interiorità, e questo non è così male ma a volte ci crea un vuoto difficile da colmare. Più del movimento, più della voglia di uscire, ci manca la vicinanza, il contatto fisico, e questa è la cosa più difficile però da affrontare: il desiderio di essere abbracciati, toccati, di dare e ricevere baci, di sorridere a qualcuno e di vivere un’esperienza fisica. Sono convinto che questo accadimento abbia risvegliato in moltissime persone, perlomeno, una riflessione riguardo all’importanza della corporietà. Ora dobbiamo sfruttare al massimo la nostra dimensione virtuale e ricordare il potere magico della connessione che si può stabilire con una lunga email, con una lunga telefonata o una videochiamata. Siamo connessi, permettetemi di dire collegati, ed entriamo in contatto anche più sentito con l’altro ed aspettiamo adesso un collegamento con molta più felicità e desiderio, rispetto a prima. Penso che in questo momento la tecnologia sia un salva-vita. In tempi ordinari ci può anche allontanare dall’avere un contatto fisico, ma quando questo non è possibile, è l’unica cosa che ci resta: dobbiamo essere grati a internet, in questo momento. Oggi è difficile vedere delle opportunità da questa tragedia, ma qualche lezione dobbiamo impararla. Impareremo da questo periodo di isolamento che la vulnerabilità ben conosciuta può essere una virtù: impareremo ad essere più umani, che chiunque, in qualsiasi paese del mondo, in questo momento sta provando le stesse paure e gli stessi desideri. Le regole del distanziamento sociale, ci fanno  toccare con mano che la salute del singolo dipende dalla salute dell’altro, per noi operatori di salute mentale è qualcosa che palpiamo ogni giorno e che troviamo impresso nelle personalità di ogni nostro paziente. Siamo tutti preoccupati per i nostri familiari e ci mancano i nostri amici: ci si sente soli, ma questa sensazione è anche fortemente connessa alla consapevolezza del fatto che, alla fine, non siamo poi così diversi e questo senso di fraternità ci porta alla condivisione del dolore. I pazienti sempre ci insegnano qualcosa se li sappiamo ascoltare, qualcuno di loro mi dice: “in fondo mi sento adesso come gli altri, traumatizzato, isolato, sofferente e questa condivisone mi fa stare meglio” oppure “in questa quarantena non sto così male, sto volentieri in casa, anzi mi sento protetto, finalmente posso rinunciare ai miei impegni, senza sentirmi in colpa”. Comunque vecchi bisogni si riaffacciano sempre in momenti di forte stress, faccio riferimento a necessità primarie tipo protezione e accudimento, soprattutto se mai in fondo risolte: così cerchiamo di colmare le distanze soprattutto in  famiglia, le attenzioni maggiori sono legate alla costruzione del senso di appartenenza al nucleo, che passa per “la realizzazione di cibo fatto in casa” come biscotti, pane o pizza e le attività da fare “tutti insieme” come visione di film o giochi. Quindi il nutrimento e la dimensione orale ci consola ancora, il pensare al cibo e al sostentamento ci infonde un senso di sicurezza, e l’immagine dei film e dei giochi ci conforta come una madre e ci avvicina alla fantasia e ai sogni notturni e diurni. Attraverso questi sentimenti, questi impegni casalinghi, ci sentiamo così meno soli e parte di qualcosa. E’ questa la pulsione di vita che si oppone alla pulsione di morte della solitudine. Le persone possono sentirsi meno alienate e possiamo tutti influenzarci, nel senso buono del termine, a vicenda, aprendoci agli altri. Ci troviamo in questa situazione insieme, e quello che fa la differenza è la solidarietà, questo non è il momento dello stigma, dei dogmi e dell’esclusione, è il tempo del restare attenti a capire questi accadimenti e a non esserne inondati. E partendo da queste esperienze si può ricostruire quello che è rotto o apparentemente irreparabile. Credo che la cura all’isolamento sta nel diventare amici prima di se stessi e poi degli altri. La solitudine è dolorosa sul piano psicologico, ci mette in condizione di tornare bambini soli, esclusi dall’affetto, facendoci sperimentare un senso profondo di angoscia, anche qui dobbiamo essere consapevoli che fa parte dell’umano: significa che sei vivo, e che hai un cuore.  

Bibliografia

Bion W.R, (1962),  Apprendere dall’esperienza. Roma, Armando, 1972.

Correale A,, La difficile differenziazione dalla identificazione traumatica. La forza gravitazionale del trauma. In intendere la vita e la morte (cura di). Quaderni del centro Psicoanalitico di Roma, Franco Angeli Editore, 2010.

Gabbard G. O., , Il disagio del narcisismo Raffaello Cortina Milano, 2019.

Ferenczi S., (1932), Diario clinico Raffaello Cortina, Milano, 2004.

Freud S., (1920), Al di là del principio del piacere, in Opere vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1971.

Freud S.,  (1925), Inibizione sintomo e angoscia, in Opere vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino, 1971.

Lingiardi V., Manuale Diagnostico Psicodinamico. Edizione italiana a cura di V. Lingiardi e F. Del Corno Raffaello Cortina, Milano, 2008.

Liotti, G., Farina, B., Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa, Raffaello Cortina, Milano,  2011.

Mucci C.. Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, Raffaello Cortina Milano, 2014.

Racalbuto A., Differenza, indifferenza, differimento, (in coll. con Giorgio Sacerdoti), Milano Masson, Agostino, 1997.

Schore A., The Science of the art of psychoterapy, Norton, New York. 2012

Van der Kolk B., a cura di  Traumatic stress. The effects of over wehlming and experince and mind, body and society, The Guilford press, New York e London, 1996. 

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Il Mito di Pan e l’attacco di panico.

L’articolo che viene proposto viene estrapolato da una complessa serie di lavori di approfondimento sul panico, che si sono concretizzati appunto in un lavoro presentato al Forum mondiale IFPS svoltosi a Firenze nell’Ottobre del 2018.

Questo mio lavoro sembra andare in direzione contraria rispetto all’attualità del pensiero psicopatologico legato al panico ma sono convinto dell’utilità di dare spazio al mito per la fatica che abbiamo nel quotidiano di dialogare con la paura che troppo spesso sembra sfuggire alla nostra comprensione. Ritornare ai modelli mitici apre invece uno spazio in cui è possibile psichicizzare l’istinto. Non importa che ve lo ricordi, la psicoanalisi si è sempre servita dei miti per spiegare l’inconscio, per aiutarci a relazionarsi con il reale. Senza considerare poi che i processi di mentalizzazione passano continuamente attraverso processi di pensiero di tipo intuitivo al ragionamento riflessivo, dal “mithos” al “logos” appunto.

Così dal mio punto di vista nella complessità moderna, assai lontana dalle radici delle nostre origini, la figura mitologica del dio Pan ci propone una riflessione sulla paura e sul senso del panico. Sebbene Pan sia un mito molto importante, per esempio risulta essere una delle poche figure della mitologia greca alla quale era direttamente attribuito il disturbo mentale; purtroppo oggi, non gode di un’estrema popolarità, al contrario, negli studi di psicologia, è facile incontrare Pan che configura la rappresentazione del panico e della sessualità, ma anche la relazione tra psiche, istinto e colpa.

La via indicata da Nietzsche nella comprensione del rapporto tra il mito e la mente, espressa con Apollo e Dioniso può essere estesa a Pan e mostrare come l’arcaico possa riprodursi in forme sempre nuove e ricorrenti, in uno  spazio “zeitlos” (senza tempo). Daltronde, questo è ciò che ci disse Sigmund Freud ‘scoprendo’ il complesso di Edipo: scoprì che la psicopatologia è la messa in atto di un mito. Affermando in ultima analisi che la metapsicologia fatta di assiomi teorici corrispondente ad un visione scientifica e positivista, prende spunto dalla mitologia. Karl Abraham vedeva nel mito un brano della superata vita infantile dei popoli, tradotto dalla psiche in un linguaggio simbolico. Carl Gustav Jung scorgeva nel mito, nella religione, nel sogno un’origine di qualcosa di transpersonale, collettivo. Con una differenza: nel sogno, le rappresentazioni si impongono autonomamente, invece nei miti la loro configurazione viene da una stratificazione culturale; e in ambedue, si rendono evidenti gli archetipi. Freud era certo dell’esistenza di una precisa corrispondenza tra significante (onirico/mitologico) e significato (inconscio), per cui considerava possibile una chiara lettura del sogno e del mito, che riconducesse alla realtà e ai significati psichici originari, mascherati dall’inconscio. Dato che per Jung invece, i miti e i sogni non stanno al posto di qualcosa che è stato cosciente, ma evocano ciò che è essenzialmente inconscio, il simbolo junghiano non svolge, come in Freud, una funzione equilibratrice, bensì dinamica e trasformativa. Nella mia pratica clinica tendo ad unire queste due teorizzazioni in base alle associazioni che il mito e il sogno permettono. La congiunzione trova a mio avviso sintesi nel pensiero di Wilfred Bion,  dove l’inconscio non è il rimosso come sosteneva Freud ma il pensato e dove l’essenza del mito, in specifica, produce ordine, connessione tra le parti e trasmissione di senso. Attraverso l’indagine sul flusso associativo in seguito alla storia mitologica, i miti assolvono un fattore generativo di contenuti analitici e una funzione trasformativa alfa di secondo grado, dalla realtà interna alla realtà esterna. Siamo agli antipodi di una tradizionale pratica analitica, poiché si tratta di usare un materiale inconscio (la catena delle libere associazioni) per interpretare uno stato mentale conscio, i miti.

Un altro aspetto che ritengo fondamentale è il legame tra mito e simbolismo. Il mito ci pone di fronte ad un simbolo, qualcosa che sta a significare qualche altra cosa, un’eccedenza di significato, un rilievo sentimentale. Così il mito diviene al contempo la più primordiale forma di arte e insieme lo scopo ultimo dell’arte, nella quale reale e  ideale, mondo e divinità, tornano ad unirsi. Lo stato di panico, al contrario, ci rivela un’inconsistenza del simbolico, con una conseguente impossibilità di ricoprire senza scarti il reale lasciandoci all’abbandono e alla morte, al sesso e alla pulsione.

Giungiamo adesso al tema più elevato della mitologia, quello di ritenere l’origine delle cose del mondo da una matrice comune. Il mito partecipa a rendere il genere umano una unità e spiega la comprensibilità delle diverse culture, anche le più lontane. Erich Fromm ci parla di umanesimo radicale: è vedere nell’essere umano la radice di tutto. Il presupposto è che esista una natura umana come caratteristica di base comune a tutti gli uomini, i quali presentano non solo una stessa anatomia e una stessa fisiologia, ma anche una medesima struttura psichica.

Veniamo al mito: Pan era il più importante dio pastorale dell’Arcadia e il suo culto fu diffuso in tutta la Grecia tramite le feste orgiastiche di Dioniso, al cui seguito appartiene. I greci lo rappresentavano con zampe di capro, corpo villoso, barba e orecchie a punta, riso furbo e corna di animale. Era il dio della natura, della selva, dei monti e dei boschi, che cacciava, danzava e amoreggiava con le Ninfe e con gli animali. Per queste sue caratteristiche venne considerato il dio dell’istinto naturale, il più importante dio della fecondità, il simbolo degli irrefrenabili istinti sessuali dell’uomo, il signore degli animali, il creatore di tutti gli esseri viventi. Egli era un dio dei pastori, un dio dei pescatori e cacciatori ma un vagabondo privo persino della stabilità derivante dalla genealogia. Infatti gli sono attribuite almeno venti origini di Pan, suo padre fu di volta in volta Zeus, Urano, Crono, Etere, Apollo, Odisseo, Hermes. Rispetto alla maternità invece l’Inno omerico a Pan, lo mostra abbandonato alla nascita da sua madre, una Ninfa dei boschi, avvolto in una pelle di lepre da suo padre Hermes, il quale portò il bambino sull’Olimpo dove fu accolto da gli dei con gioia. Per questa ragione veniva considerato come figlio di Hermes per ragioni adottive.

Successivamente rifiutato per il suo aspetto mostruoso dagli dei Olimpici, amanti del bello, fu Pan, però, che soccorse Zeus in ogni sua difficoltà. Durante la gigantomachia, guerra degli dei Olimpici con i giganti della terra, emise urla così terribili e selvagge che spaventarono e misero in fuga i Titani. Da questo evento ebbe origine la parola panico. Nella sua natura vi era anche un istintivo bisogno di raccoglimento e di quiete, per questo cercava, nelle ore più calde del giorno, un luogo tranquillo e ombreggiato dove riposare e guai, a chi avesse osato rompere l’armonioso silenzio della natura, infuriato si sarebbe messo all’inseguimento dei malaccorti disturbatori, i quali sorpresi si sarebbero dati ad una pazza fuga presi dal timor di panico.

Numerose effigi lorappresentano spesso tra cime montuose e grotte, tra clamore e musica, tra panico e stupro, in solitudine o in compagnia delle Ninfe. Le Ninfe rappresentano la personificazione dei filamenti e dei banchi di nebbia sospesi sulle valli, sulle pareti montane e nelle sorgenti che velano le acque e danzano sopra di esse, testimoniando la loro dimensione eterea. L’etimologia greca non vuol dire altro che fanciulla fatta o ‘signorina’. Dal punto di vista caratteriale presentavano una vergogna, una timidezza, uno sgomento verso la natura. Molte ninfe non hanno nome, questa impersonalità le fa emergere solo come l’oggetto della pulsione e Pan le insegue per i boschi e le valli per amarle o violentarle. Entrambi, Pan e le Ninfe dimostrano un’incompiutezza, che resta sospesa in un amore non ancora coppia, nell’orrore della sessualità pulsionale da una parte e negli svenimenti, nelle fughe nevrasteniche nel sistema vegetativo dall’altra.

Più tardi, Pan divenne il dio protogenio dell’universo, il dio infine del ‘gran tutto’. Tutto si intende riferito alla sua funzione paterna e insieme a quella di pastore, come colui che genera e colui che nutre. Compiere funzioni paterne significava generare gli esseri viventi attraverso il fallo, nel quale ci sono i semi di tutte le cose. Quindi ‘tutto’ era sinonimo di fallo, e Pan veniva identificato come ‘fallo mistico’ padre di tutte le creature ed espressione di una potenza sessuale sovrannaturale.

Per queste ragioni col cadere del paganesimo egli passò nell’ordine dei semplici demoni, e le sue fattezze indussero i cristiani ad identificarlo come il diavolo. Pan morì quando Cristo divenne sovrano assoluto. Il contrasto fu riflesso nelle rispettive iconografie: “L’uno nella grotta, l’altro sul Monte; l’uno ha la musica l’altro la parola; Pan ha le zampe pelose, piede caprino, è fallico; Gesù ha gambe spezzate, piedi trafitti, è agenitale”.

Freud tratta il tema del panico, nel libro Psicologia delle masse e analisi dell’io, considerandolo generalmente determinato dalla rottura dei legami libidici e affettivi. I vincoli reciproci, legati alla massa, hanno cessato di sussistere, il soggetto si sente perduto, si scatena così una paura irragionevole e ognuno si preoccupa esclusivamente di sé senza tener conto degli altri. L’esperienza panica può manifestarsi in due condizioni, può esserci paura panica, una sorta di fuga precipitosa, oppure, può esserci angoscia panica come vuoto, un non essere, con una conseguente inibizione del comportamento motorio, o entrambe. Le Ninfe esibiscono, ambedue le condizioni, la fuga e l’inconsistenza dell’essere etereo.

Discutendo del panico ritengo che la paura permette di vedere oltre la trama, alla ricerca di parti conosciute della nostra esistenza mai in fondo dimenticate. Se ci rivolgiamo verso noi stessi viviamo un’esperienza di essere indifesi, che ci riporta ad una esperienza infantile di debolezza, dove il materno era l’unica ancora di sopravvivenza. Quando viviamo l’esperienza dell’abbandono non dobbiamo avere eccessivo timore del rapporto con il nostro vissuto. Spesso l’attacco di panico è paradossalmente l’elemento di coerenza in un rifiuto costante della propria identità, della verità, del rapporto con la propria interiorità

E nel panico quale sarebbe la verità che viene messa in gioco? In estrema sintesi potremmo dire che il panico è ciò che fa emergere la verità della nostra condizione esistenziale di abbandono, di inermità, di Hilflosigkeit, come direbbe Freud. Il nostro compito è quello di entrare in contatto con essa, e non di fingere di non conoscerla. I bambini possono ingannarsi, ma l’età matura ce lo impedisce e ci obbliga a confrontarci con questa dimensione dall’apparenza devastante che non ci abbandonerà mai. Una volta in rapporto, per non rimanere paralizzati, dobbiamo addentrarci nelle pieghe del linguaggio della paura. Il nostro desiderio di onnipotenza e di difesa narcisistico deve necessariamente confrontarsi con la vita, che ci impone sempre la relazione con la realtà e con la paura di esserne inadeguati, indegni.

Grande rilevanza nella condizione panica ha anche la autonomia del soggetto, la separazione e la conseguente ansia di separazione. Questa rilevanza trae le sue fondamenta dal lavoro di John Bowlby che mette al centro ed all’origine della vita psicologica l’attaccamento, perno attorno a cui ruota la vita di tutta la persona. In questo caso il sintomodi panico si origina da un mancato riconoscimento delle figure primarie, da una non adeguata integrazione degli oggetti-Sé e da compromesse identificazioni con le figure significative. Il soggetto sente un’assenza fisica dell’oggetto, “mancanza della madre”, del contenitore, dei legami interni. La difficoltà di separazione determina complicazione, il soggetto non è risolto e la sua dimensione interiore non gli permette di tollerare angoscia e dolore, di considerare l’ambivalenza che si genera fra bisogno e amore, tra desiderio e paura. Se invece nella dinamica di sviluppo il soggetto avrà relazioni precoci disturbate, con esperienze traumatiche dell’attaccamento, la personalità risulterà mancante impotente. Il segnale d’angoscia sarà la castrazione come ci insegna Freud, comunque la mancanza di qualcosa. In generale la separazione-castrazione continuerà a rappresentare una minaccia, un fattore molto ansiogeno che trasversalmente attraverserà tutte le fasi evolutive e di vita dell’individuo. 

Durante la terapia per il panico, l’analista e il paziente si spingono insieme gradualmente fino ad accostarsi alla situazione terrifica, per comprenderne il significato, cosa che viene sempre evitata dal soggetto, il quale sente che potrebbe esserne schiacciato. L’evitamento continua nella situazione patologica con il tentativo di sottrarsi a ciò che ci incute angoscia con il risultato di una fuga da tutta una serie di esperienze. Allo stesso modo nella condizione normale non volere entrare in relazione con la paura, significa fuggire dalla vita stessa. L’analisi deve piano piano esporci a queste sofferenze e curarci. Se non conosciamo questa dimensione non avremo alcun modo di accorgerci della nostra nudità e, quindi, non riusciremo mai a prendere in mano la nostra vita.

Osservando il panico, e prendendo spunto da esso, non possiamo non notare che nella condizione panica l’uomo rimane separato da una sua parte inconscia, ne è scisso, e purtroppo ne subisce l’irruenza nel corpo sintomatico. In senso mitologico queste persone sono catturate, rapite, invase, sedotte dal dio Pan che con le urla, il rapimento e lo stupro cagiona paura smisurata e sgomento: è panolessia, in altre parole possessione dell’uomo da parte del dio che lo estranea e gli fa perdere le caratteristiche umane. Pan ci assale e ci induce a contenuti inconsci primordiali ma proprio per questo ci permette una comprensione di noi stessi. La figura di Pan nell’erezione e nella paura, deve essere il mezzo attraverso cui il soggetto raggiunge le parti più oscure della psiche, ‘le caverne’.

Pan è sì responsabile della nostra frenesia e della nostra paura, ma allo stesso tempo guarisce. Per questo vi sono affinità tra Pan e Asclepio, entrambi guariscono per mezzo dei sogni, in particolari località, a loro care. In mitologia il suo potere taumaturgico è espresso nel mito di Amore e Psiche, dove Pan soccorre Psiche in preda alla disperazione. Nella favola raccontata da Apuleio, Pan protegge Psiche dal suicidio. Sconsolata, senza amore, negato l’aiuto divino, l’anima è presa dal panico. Psiche si butta nel fiume che la rifiuta. In quello stesso momento di panico, Pan compare con il suo lato riflessivo Eco sua ninfa e persuade l’anima. Pan è al tempo stesso distruttore e preservatore, come d’altronde lo è la natura. Quando siamo presi dal panico non sappiamo mai se si tratti del primo movimento con cui la natura si appresta ad elargirci qualcosa, se siamo capaci di udire l’eco della riflessione, oppure se il malessere è la natura che ci sta dominando.

Perché Pan è psicopatologico? Perché evidenzia la scissione di dio e capro, nella sessualità dove è presente divinazione e forza animale, perché è l’orrore della natura nell’incubo e nel panico e perché rappresenta l’esistenza individuale. Il capro solitario è infatti sia l’unicità che l’isolamento. E’ l’eterno puer, l’elfo con il piffero che chiamiamo Peter o il profondo Sé emotivo che è sempre un bambino abbandonato.

L’irruzione del dio Pan diviene un meccanismo psichico per correggere l’Io troppo irreale. L’espressione corporea si rende necessaria perché i contenuti emotivi non possono essere pensati. Panico e incubo si presentano quando la psiche è già vittima dell’angoscia e della sessualità. L’orrore è già iniziato e la coscienza riflessiva corre il pericolo di essere sopraffatta e violata da quel mondo fisico di Pan. Ma la trasformazione della coazione non è un problema della coscienza che deve agire sull’inconscio, come la volontà che agisce sull’immaginazione, al Super-Io che agisce sull’Es, o alla mente che agisce sul corpo. Il mito ci spiega che Pan ha bisogno delle Ninfe, e che curano insieme come nella favola di Apuleio, la corporietà di Pan deve incontrare un contenuto psichico, la Ninfa. Il mito Pan e le Ninfe tiene insieme natura e psiche, dice che gli istinti sono riflessi nella mente e che psiche e istinto sono in ogni momento inseparabili. Ogni  terapia che non riconosca psiche e istinto quale è presentata da Pan, preferendo un lato all’altro, insulta Pan e non guarisce. Non possiamo far nulla per la psiche senza riconoscerla come natura ‘dentro di noi’ e non possiamo far nulla per l’istinto se non teniamo a mente che esso ha una propria intenzione psichica.

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Il sogno uno sguardo interpersonale

Gentili colleghe e Colleghi

Chi mi conosce meglio sa che utilizzo molto i sogni nella clinica, ma oggi non intendo parlare dell’analisi dei sogni, ne cosa abbiano a che fare con il sapere, invece voglio mettere a fuoco prima il sogno nella dimensione relazionale e poi interpersonale. Quindi sorvolerò se sono un prodotto della condensazione sulla corteccia celebrale di stimoli provenienti dalla zona periacquiduttale del tronco, bulbo e ponte encefalico, se i sogni siano, seguendo la concezione fisiologica freudiana, espressione di un inconscio rimosso legato al corpo. O più semplicemente un residuo del pensiero che trova il suo punto di arrivo nella messa in sequenza di immagini con un senso, un’alfabettizzazione di tutta una serie di stimoli sensoriali e protoemotivi (Bion). Non vorrei neppure occuparmi dell’Inconscio, anche nella formula concettualizzata da Levenson e più vicina alle nostre deduzioni: perciò di una dimensione non “scavata” o “nutrita”, ma che può essere “intravista”, – in particolare nei suoi aspetti non formulati. Seguendo questo riferimento altri autori parlano del conosciuto non pensato (Bollas, 1987), di inconscio passato (Sandler e Sandler, 1987) credo che si riferiscano a quelle aree della mente che appartengono ad un inconscio non rimosso legato alla memoria implicita (Mancia, 1985); che si presentano in analisi in forma criptica e in modo più chiaro nelle immagini oniriche. O ancora se essi provengano da una struttura, formalizzata da C. Lévi-Strauss come “strutturalismo”, e presa in prestito da Lacan e Matte Blanco come appunto struttura della mente, per parlare di sogni; cioè di un sistema autonomo che preesiste all’esperienza del singolo, e lo definisce. Ne delle teorie junghiane che rivalutano i fenomeni onirici e soprattutto la loro funzione originaria, secondo Jung, parlare di sogni significa parlare di Inconscio, e l’Inconscio ci determina.

Spero che il mio fare non sia interpretato come un atteggiamento altero verso queste teorie, esse individuano tutte prospettive interessanti degne di nota e di approfondimenti. Però dilungarmi su questi concetti mi porterebbe lontano.

Oggi la maggior parte degli psicoanalisti è lontana dal sostenere l’originale impostazione di Freud che a quel tempo proponeva il concetto di interpretazione come un lavoro di decifrazione delle manifestazioni dell’Inconscio. Lo stesso Freud si allontanò progressivamente dalla sua stessa impostazione iniziale e di fatto, nel 1926, pubblicò un interessante lavoro intitolato “Il problema dell’analisi condotta da non medici”, dove immaginava un dialogo con un interlocutore virtuale, sulle peculiarità della psicoanalisi. In questo lavoro, affrontava anche, il problema della fragilità dell’interpretazione attribuendo a questo interlocutore un commento critico circa la natura e la funzione terapeutica della stessa. Freud, attraverso le parole di quest’ultimo dichiarava: “Interpretare! Che brutta parola! Se tutto dipende dalla mia interpretazione, chi mi garantisce che interpreto correttamente? Tutto allora è affidato al mio arbitrio” (OSF, 10). A questo punto per trovare assunti della tecnica sul sogno ormai accettati dagli psicoanalisti relazionali e non, direi di fare un salto di 70anni per arrivare ad Odgen (1999): Per l’autore la vitalità dell’esperienza analitica non risiede nell’interpretazione che ne traduce il senso, quanto nella capacità di sognare o simbolizzare, nel processo di sviluppo di una funzione immaginativa o di pensiero. Quel che conta, non è tanto la decodificazione del linguaggio parlato delle immagini, di per se inevitabilmente riduttiva del testo onirico, ma semmai le reverie del paziente e dell’analista, la dinamica relazionale delle due soggettività e il dialogo del tranfert, che ne espandono le potenzialità di senso. Questa impostazione prevede che quando uno ha decifrato il significato del sogno, ha perso contatto con la vivacità elusiva dell’esperienza del sognare, e al suo posto ha creato un messaggio piatto, crudelmente modificato. Al contrario, Odgen, invita l’analista all’esperienza di essere alla deriva a farsi portare dalla corrente della reverie per avvicinarsi alla verità delle emozioni del paziente. Mi vengono in mente, e spero anche a voi, momenti di forte stallo di fronte ad un sogno nei quali lo psicoanalista non riesce a produrre nessuna interpretazione e poi quasi attraverso un’intuizione inaspettata, direi salvifica, riesce a trovare un’aderente ed emotiva interpretazione, sicuramente, in quel momento, abbiamo fatto esperienza di un’area transizionale nel senso winnicottiano del termine, dove sono presenti gli oggetti, le fantasie e la realtà. Inoltre Odgen raccomanda al linguaggio di non saturare troppo il significato, bensì di essere allusivo, più che dimostrativo, eclettico, quasi musicale. Aggiungo che lo stare nell’incertezza, come sosteneva Brizzi, alimenta un tempo di sospensione che produce un humus necessario per pensare (Brizzi, 2009). Il racconto del sogno, la trascrizione delle immagini oniriche in un metalinguaggio, si annuncia già come una comunicazione densa di significati, epifanica, fortemente investita di affetto, e in un modello di campo narratologico persino elementi fortemente soggettivi, come il sogno del paziente, appartengono al campo. E la coppia lavora nel trovare significati, nel trovare macchie cieche, uscendo e rientrando nel lavorare zolle o dissolvere contenuti beta, ma anche creando spazi nuovi, raggruppando emozioni, chiarendole, focalizzandole. Usando i vari personaggi per accostarsi a contenuti perturbanti, pur nella certezza dello psicoanalista che la comunicazione ha a che fare con emozioni addensate e teneri sentimenti, in attesa di focalizzazione. Così come evidenzia Ferro in un gioco teatrale serissimo, che smaschererà l’illusione referenziale e la retorica del reale, coinvolgente per entrambi, consente di raggiungere livelli inusuali di immediatezza e affettività, al servizio della crescita mentale (Ferro, 2007). In tutti i casi è possibile ritenere che il paziente si serva inconsapevolmente del racconto dei sogni come di una forma comunicativa per trasmettere all’analista quali siano i suoi bisogni di cura e quali le sue aspettative, i suoi timori nei confronti del lavoro terapeutico, determinando un vertice informativo sulla relazione duale (Waiss, 1999; Ferro, 1993).

Così sin dai tempi di Asclepio ci si addormenta e si sogna i mezzi per guarire, che vengono indicati nella loro forma naturale o come simboli o immagini.

Queste tecniche applicative sui sogni sembrano ormai accettate, direi di spostarsi in direzione interpersonale e per fare questo ripartirò da Freud.

Osservazioni sulla teoria e pratica dell’interpretazione dei sogni (1922, OSF 9). Freud si dibatte in queste pagine sull’influenza del medico e sulle eventuali suggestioni provocate dall’analista sui sogni del paziente, sui sogni convalidanti, inoltre su quelli che ricalcano l’analisi o ne allargano i significati, e addirittura quelli che divengono sogni compiacenti, spinti nel significato per soddisfare il desiderio dell’analista. O quelli che esplicitamente durante la loro analisi non esprimono che una dimensione legata alla dinamicità del tranfert. Inoltre, vi ricordate l’articolo precedente di Freud del 1926! Aveva un seguito: Oltre ai contenuti sull’interpretazione, Freud, con un intrigante svicolare, proponeva una nuova idea che introduceva di fatto il fattore soggettivo nell’analisi dei sogni: “E’ molto questione di una certa sensibilità, per cosa dire di una certa finezza di orecchio per i processi inconsci. E’ questione di tatto e con l’esperienza si può affinarlo assai” (OSF, 10).

Sollecitato da queste considerazioni, per prima cosa, tendo ad allargare l’osservazione sull’inconscio interpersonale e a metterla in relazione al sogno, prendendo in prestito il pensiero di Mitchell e il suo punto di vista, appunto, sull’inconscio interpersonale, si tratta dice l’autore: “di uno sconcertante repertorio di configurazioni o personificazioni di sé-altro interiorizzate, legate a identificazioni con alcune figure-chiave e ad un’inclinazione a ripetersi”. L’autore arriva a concludere che la mente è composta da configurazioni relazionali (Mitchell, 1988). Osservo che di dinamiche relazionali e pattern comportamentali sono ricche le immagini oniriche, e seguendo la tesi citata, deduco che i sogni corrispondono in pieno a questo processo della mente.

Se invece mi sposto sulla relazione, ricordo che l’analista interpersonale è lontano da certezze analitiche e ritiene che bisogni e desideri siano co-costruiti da paziente e analista, come in ogni interazione. E l’Inconscio, perciò, non è un’entità oggettiva e singolare ma un’esperienza collocata nella storia interpersonale. Così l’esperienza inconscia diviene, co-creata. Seguendo questa posizione, anche l’esperienza inconscia prodotta nel sogno del paziente contribuirà a costruire l’inconscio del paziente, dell’analista e della coppia analitica. Altri analisti interpersonali pongono l’attenzione sul significato più radicale dell’osservazione partecipe, puntando sui processi interattivi, così come sono vissuti all’interno dell’interazione analitica. In questo modo, lottando insieme per dare voce a ciò che non è formulato, paziente e analista immaginano legami scomparsi nel tessuto dell’esperienza (Mitchell, 1988). Paziente e analista costruiscono narrazioni che sono le migliori approssimazioni di ciò che non è espresso nella storia del paziente. Mi sento in ciò, in completo accordo con Hirsch che definisce il progresso terapeutico come “la scoperta di vecchie configurazioni misconosciute e la creazione di nuove configurazioni mai sperimentate”. (Hirsch, 1995). Se estremizziamo questa dimensione piuttosto che interpretare il contenuto inconscio di un sogno del paziente, analista e paziente descrivono insieme l’enactment che riflette il contenuto dell’esperienza inconscia, e questo è possibile perché l’analista partecipa involontariamente al transfert del paziente, e la relatività dell’Inconscio non può mai essere pienamente conosciuta se non quando è vissuta nella soggettività della relazione analitica del qui e ora. Addirittura Walter Bonime (1962), un analista americano di non dubbia impostazione interpersonale, critica la riduttività e la devianza delle interpretazioni classiche dei sogni, che andando alla ricerca del simbolismo sessuale, dimenticano proprio il significato affettivo espresso nel contenuto manifesto e nell’atmosfera narrativa.

Nella consegna di un sogno in analisi, da parte del paziente, vi è il dare qualcosa di sè per essere interpretato, l’usare la mente di un altro per decifrare i contenuti della propria, una richiesta-funzione di Io-ausiliario che soprattutto pensa ed elabora i contenuti di un proprio processo psichico. Una richiesta di funzione alfa da parte dell’analista ma anche una vera e propria identificazione proiettiva, a proposito di circolarità esistente tra paziente e analista. Nel contenuto di identificazione proiettiva, formulato per la prima volta da M. Klein nel 1946 vi è una proiezione inconscia di aspetti della propria vita psichica (emozioni, idee, vissuti fantasie, ecc) su di un’altra persona, sono parti di se buone o più facilmente cattive allo scopo di sbarazzarsene, in quanto ritenute un pericolo. Ma questa è solo una delle tre fasi come le descrive Ogden (1979, 1982). Salto la seconda, che, siccome è caratterizzata da una continua pressione interpersonale esercitata da colui che proietta, su colui che riceve la proiezione, non riguarda direttamente il sogno. Nella terza fase Odgen ci parla di reinternalizzazione, in quanto la parte prima proiettata verrebbe ora rinternalizzata. Prima il terapeuta riceve la proiezione la metabolizza, la contiene, e poi la restituisce al paziente trasformata pronta per la reinternalizzazione. Traspare, da questi contenuti, il tema bioniano di identificazione proiettiva come condizione in cui la madre contiene e trasforma con la sua reverie, le proiezioni del bambino in modi che rendono tollerabile l’intollerabile (Bion, 1962). Egli paragona questa funzione con la funzione di contenimento dell’analista. Vi sono molti esempi di questo, nel lavoro clinico, in cui il paziente è in grado di esplorare un’esperienza intollerabile solo attraverso qualcun altro. In questo caso sembra che ciò che promuove il pensare sia la libertà dalla frustrazione – cioè l’opportunità di esplorare l’esperienza in qualcun altro, che la può sentire e pensare profondamente. E questo produce uno sviluppo del pensiero, un sistema protoemotivo che abitua il paziente a riflettere a contenere l’emotivo, a produrre elaborazioni, e il sogno da questo punto di vista è uno straordinario aiutante durante la cura. Ma c’è dell’altro secondo me, riflettere sui sogni aiuta a pensare, ad evidenziare le categorie narrative implicite ai processi che guidano l’osservazione, e soprattutto l’attribuzione di senso determina la costruzione del soggetto e la costruzione dell’inconscio del soggetto. E’ importante per i pazienti identificare bene uno stato emozionale prima di essere in grado di riconoscerlo come appartenente a loro; soprattutto quando hanno una scarsa strutturazione emotiva del loro Inconscio o anche dei processi primari. Schore (1996; 1998) ha ipotizzato che la sede dell’inconscio sia localizzata nella corteccia prefrontale destra e che, quando stiamo lavorando con pazienti borderline, il problema non è quello di rendere l’inconscio cosciente, ma quello di ristrutturare o anche di strutturare l’inconscio. Seguendo l’Alvarez (1984) e Schore penso che un’importante componente del Sè, provenga dal riconoscimento di un sentimento come familiare e che, più o meno, proviene dall’interno di sè. I pazienti hanno bisogno di essere aiutati a percepire il tempo della mente, a soffermarsi sull’oggetto, oppure sull’Sé, ad indugiare sull’esperienza. Così da riflettere su ampie porzioni di esperienza non formulata ed integrare l’esperienza verbale di esperienze dissociate (Hoffman 1995, Hirsc, 1995). Il fatto di inserire all’interno di un campo emotivo, il cui funzionamento è spesso riconducibile, di per se al paradigma onirico, un sogno vero e proprio, permette di azzerare quei resti di responsabilità morale ancora adesi al sogno, e questo determina un incremento di verità emozionale, di pregnanza delle trame e dei riconoscimenti. E’ come se il paziente si facesse spettatore con l’analista, del suo stesso sogno, allestendo uno spettacolo che li comprende entrambi come attori dei nuova piece teatrale. Mai come nel chinarsi insieme ad osservare il sogno, che a differenza di altre narrazioni, è recepito dal suo autore in modo passivo, attraverso la lente del setting, psicoanalista e paziente si ritrovano a gomito a gomito. Per spiegare come utilizzo i sogni in terapia mi sembra opportuno fare una corrispondenza tra il lavoro sul sogno di analista e paziente e la tecnica dello scarabocchio intesa da Winnicott. La visione di Winnicott sulla figura dell’analista, prevede che questa non rispetti la neutralità classica, anzi non si limiti solo a giocare col paziente, ma anche a fare egli stesso se ritenute opportune delle libere associazioni, l’importante, secondo l’autore, è trovare un punto di incontro su cui lavorare. Nei colloqui clinici con i bambini Winnicott rivela che l’importanza del gioco dello scarabocchio stia nella creazione di uno spazio transizionale, nel quale esprime e creare forme e movimenti nuovi, una libertà, uno spazio creativo. Rispondendo alla richiesta e trasformando lo scarabocchio in qualcosa di riconoscibile e condivisibile, il bambino e l’analista, oltre ad produrre un esempio del proprio mondo interiore collaborano alla costruzione dell’inconscio. Lo stesso avviene con il sogno, il paziente porta un sogno e l’analista invita il soggetto a produrre libere associazioni, servendosi poi delle rispettive attribuzioni di senso la coppia determina un campo dove insieme cercheranno di dare un significato il più possibile compiuto ad un impasto emotivo pieno di dimensioni inconsce e riflessioni coscienti, oltre a dare, cosa di non poco conto, intensità ad un’esperienza congiunta.

Come a testimonianza della concretezza dei miei suggerimenti sulla tecnica dei sogni e delle mie teorizzazioni sulla presenza di un impasto emotivo di menti che si incontrano di fronte al sogno, e poi concludo, tratterò sinteticamente i sogni dell’analisi di paziente e analista. Essi sono la palese manifestazione sul piano espressivo-formale di un livello in cui l’analista e l’analizzando compaiono senza mascheramenti, in cui si figurano situazioni chiaramente legate al contenuto manifesto e si forniscono indicazioni sul tranfert e sul controtranfert. Si potrebbero chiamare sogni della cura o sogni sull’analisi, sogni in cui scrive Neyarut (1974), è come “se l’analisi stessa fosse diventata una storia e costituisse la sua propria storia, come se diventasse il proprio contesto”. E’ interessante osservare in proposito anche i contenuti di Numberg 1951; Gitelson 1956, Rappaport 1959, che ci offrono indicazioni tecniche di ordine quasi prescrittivo sui sogni della cura, che possono essere indizio di una mancata attivazione del tranfert. Aggiungo, il paziente e l’analista tendono a neutralizzare e a sospendere il clima di neutralità e privazione in cui l’analisi “dovrebbe” svolgersi, per lasciare spazio ad una relazione interpersonale, e il sogno appare un ovvio derivato del senso di colpa, non solo Edipico, originato dal carattere trasgressivo della mise en scène del setting.

Concluderei con le parole di molti pazienti: “Ma allora potrei riconoscermi, in qualche personaggio delle mie scene oniriche, questo sono io!”, e qui è come se il soggetto ripetesse la sua indagine ossessiva sulle composizioni e scissioni dell’Io e, in parte, si sentisse ancora una volta solo nel riconoscersi, ma questa volta può vedersi riflesso nell’altro, così l’Io e il Sè può nascere a se stesso.

 

Psicoanalisi e il trauma

Esistono oggi sostanzialmente due diverse modalità di ascolto del bambino in uno scenario traumatico quella che ascolta il bambino per capire, e si sforza di comprendere il significato delle parole dette, dei segni, dei sintomi, la simbologia del racconto o del gioco, i silenzi, il comportamento, che osserva il corpo, riconosce le emozioni, i sentimenti, la sofferenza; l’altra è quella che si pone davanti al bambino esaltandone la sessualità infantile e proiettando nel bambino attraverso un’identificazione, un adulto con i sui desideri, i suoi bisogni e moti istintuali, ma questa è una dispercezione della realtà, una fantasia, il bambino è un’altra cosa, la sua sessualità è composta si da elementi parziali e per questo fragile ma la sua pulsione è ricerca dell’oggetto benevole amato e non un mero soddisfacimento del piacere.

Come faccio tutti i giorni nel mio lavoro cercando di dare significato ad un comportamento ad una emozione cercherò qui di dare una personale interpretazione psicoanalitica a queste due caratteristiche. Io sono uno studioso di psicoanalisi è sostengo che un esame neutrale sugli studi effettuati e una riflessione sulla storia della psicoanalisi ci permetta di capire su che impianto teorico si appoggino oggi una modalità che predilige la verità, nell’accezione bioniana del termine, come una vera e propria pulsione e un’altra che sostiene l’esistenza di un mondo inconscio infantile che addirittura spinge e giustifica l’adulto nell’abusare del bambino, questa concezione condensa arbitrariamente  le idee freudiani e segue il punto di vista di E. Jones, biografo di Freud.

Pur essendo uno psicologo che da oltre 20 anni si occupa dell’adulto, il trauma ha destato sempre in me tanto interesse, concretamente per due ragioni: la prima, come causa certa del disturbo mentale, perché sempre esploriamo le dimensioni del trauma si su un piano soggettivo sia su un piano reale, ci chiediamo sempre se la persona che abbiamo davanti, specialmente se è molto sofferente abbia subito un trauma. Ricordo un evento una signora di una certa età, dopo seppi di 78 anni, mi fermò nel corridoio dell‘ospedale chiedendomi un appuntamento per problemi di ansia, stavo uscendo, così gli chiesi se avrebbe potuto venire all’ambulatorio il giorno seguente, fissammo l’incontro; il giorno seguente appena seduta davanti a me, mi raccontò che un amico di famiglia, quando lei aveva 7 anni, aveva abusato di lei, la sua descrizione era ricca e minuziosa di vivi particolari e la cosa sorprendente era questa: la donna aveva mantenuto questo segreto per tutta la sua vita non comunicandolo a nessuno, solo prima di sposarsi aveva consultato un’ostetrica per controllare lo stato della sua imene. Sono passati molti anni da quella seduta sento ancora la forza e l’intensità emotiva di quell’incontro e di quel racconto, non sto qui a descrivervi quanto questo evento abbia catalizzato la strutturazione della personalità e delle sue relazioni, insomma, la vita di questa cara signora, e forse anche la mia suscitando in me un grande interesse per il valore del trauma in psicologia. Molto spesso in terapia i pazienti adulti portano racconti simili assai delicati, di essere stati abusati o di aver commesso abusi.

La seconda ragione del mio interesse riguarda il ruolo centrale che il trauma riveste all’interno del pensiero psicoanalitico, pur con pareri discordanti: infatti, per qualcuno la riflessione di Freud sul trauma aprì la strada allo sviluppo della psicoanalisi, ma troppo presto interrotta, per altri l’abbandono da parte di Freud della teoria della seduzione, comprendente la dimensione del trauma e il conseguente interesse rivolto al mondo della fantasia e all’inconscio, sancisce la nascita della psicoanalisi, per altri ancora uno spartiacque necessario per lo sviluppo teorico, per altri addirittura la causa di un’involuzione.

La psicoanalisi ha come specificità il continuo riferimento all’opera del suo fondatore Sigmund Freud, e come sostiene Lacan, il suo riferimento è imprescindibile sia per coloro che producono un avanzamento ripartendo da continue riflessioni dalla stessa, sia per coloro che invece riconoscono l’opera del suo fondatore come non superabile oppure addirittura ampiamente criticabile.

Numerosi scritti freudiani dal 1893 al 1933 tendono a dimostrare che Freud rimase sempre in contatto, anche se con alterni momenti, con la primitiva concezione del trauma, come evento realmente accaduto, non distaccandosene mai completamente, anche se l’etiologia dell’isteria e della nevrosi come impianto teorico si troverà definitivamente modificata, e guiderà Freud ancora nella ricerca di un fondamento universale del funzionamento psichico, che forse secondo Laplanche e Pontalis (1993), non gli riuscirà mai completamente di situare, se non attraverso l’Edipo.

Approfondiamo qualche aspetto.

Il significato del termine seduzione rimanda ad una scena sessuale, nella quale un soggetto adulto abusa di un altro che si trova in una condizione d’inferiorità. E’ da questa rappresentazione di una coercizione imposta, con potere corruttivo e deviante rispetto all’apparato psichico ancora immaturo del bambino, che Freud elaborò la sua teoria sulle nevrosi, prodotta da un abuso sessuale subito nell’infanzia e causa di un trauma psichico. A questa riflessione, come succede spesso di notare a chi studia le opere del padre della psicoanalisi, Freud arriva catalizzando un umus teorico e una realtà sociale, un’esperienza personale e un’evidenza clinica: le cliniche pediatriche dell’Europa centrale erano piene di bambini realmente abusati, perlopiù in famiglia. Anche se del suo soggiorno berlinese presso il reparto di pediatria diretto da Baginsky non si sappia granchè e della sua direzione dell’ambulatorio di disturbi nervosi del Kinder-Kranken-Institut di Vienna (Bonomi, 2009). Questa sconcertante negligenza non sembra essere estranea al desiderio del fondatore della psicoanalisi, dato che nei suoi testi i riferimenti al lavoro con i bambini sono pochi e distorti.

Infatti, in Etiologia dell’isteria del 1896 parlando dell’esposizione dei bambini agli assalti sessuali, Freud scrive:

“Non appena incominciai ad informarmi su quanto si conoscesse sull’argomento, alcuni colleghi mi segnalarono che già erano comparse varie pubblicazioni di pediatri, nelle quali veniva denunciata la frequenza con cui le balie e le bambinaie fanno oggetto di pratiche sessuali persino i lattanti”:

Ma questo non era il mondo con cui Freud veniva a contatto giornalmente come responsabile del Kinder-Kranken-Institut di Vienna. Quindi Freud non dichiara apertamente la sua esperienza nelle cliniche viennesi ma utilizza quei fatti per trarne impostazioni teoriche, attribuendo ai colleghi queste evidenze e perché mai? La sua esperienza nei confronti dei bambini abusati doveva essere nascosta e per quale motivo?

Quindi la causa ultima dell’isteria è sempre la seduzione del bambino da parte di un adulto, e l’evento traumatico è situato sempre prima dell’età della pubertà, mentre l’insorgere della nevrosi si manifesta dopo la pubertà ed è legato al ricordo risvegliato per via associativa. Queste sono le conclusioni temporanee alle quali giunge Freud recidendo ogni legame con la tradizione psichiatrica organicista di Kraf-Ebing.

Freud risolve la questione relativa tra la causalità reale e la fantasia indicandone la localizzazione nelle cause sessuali, riconoscendo ad esse un’immaginazione e una fantasia, abbandonando così la teoria della seduzione sostituendola con quella della fantasia. Per arrivare a ciò Freud identificò come centrale la scoperta dell’inattendibilità dei racconti delle pazienti in analisi. I racconti riproducevano fantasticherie radicate in una sessualità infantile articolate intorno ad complesso destinato a rimanere un nucleo centrale nell’opera, quello di Edipo; a completare la sua ipotesi, qui solo in abbozzo, della psiche come composta da un inconscio separato dal subconscio e dalla coscienza, risultò l’impresa titanica dell’autoanalisi iniziata in quel periodo. L’abbandono della teoria della seduzione viene considerato dalla tradizione psicoanalitica come un evento che apri la via all’idea secondo cui gli eventi esterni traggono la loro efficacia dai fantasmi da essi derivati e dall’afflusso di eccitazione pulsionale che essi provocano; e inoltre contribuì a produrre un’attenzione crescente dei concetti di fantasma inconscio e di sessualità infantile, che egli definisce “perversa polimorfa” (Freud, 1905) cancellando con un colpo di spugna di fatto la realtà psichica. Mi sono sempre chiesto perchè Freud abbia usato questa rappresentazione perverso polimorfo, in quanto questa proviene da un’osservazione del bambino adultocentrica, eppure la sessualità del bambino è solo in sviluppo si compone di elementi parziali ma di un bambino che non parla, quando è in fasce, per esempio, non diciamo che è muto.

A.A. dopo un accurato e serio lavoro, in particolare sulle lettere tra Freud e Fliess non pubblicate, arrivano a conclusioni diverse (Miller, Masson, Bonomi, ecc.) adducendo che probabilmente le motivazioni che hanno indotto Freud ad abbandonare improvvisamente la teoria del trauma sono più profonde e personali di quanto egli vuole far credere. Essi a vari livelli notano che l’inattendibilità dei racconti, l’isolamento e gli insuccessi personali posti da Freud come motivazioni principali alla negazione della teoria del trauma, non sono sufficienti a dare ragione dell’accaduto. Questi Autori ricostruendo momenti della vita di Freud, ci hanno permesso di capire meglio le ragioni e le motivazioni che portarono lo psicoanalista a scegliere tra impostazioni teoriche così diverse. Per circa un anno dopo la morte del padre Jacob, avvenuta il 23 Ottobre 1896, le sofferenze interiori di Freud si aggravano, egli oltre a rimuginare giorno e notte sull’apparato psicologico e sull’origine delle nevrosi, è immerso anche in una riflessione complessiva sulla sua personalità e sulla figura del padre, queste ragioni sono da considerare come le spinte più importanti che portarono Freud ad intraprendere l’autoanalisi e successivamente ad orientare la sua teoria. Questo perchè il trauma non si verificò solo nell’esperienza clinica di Freud ma sfiorò con una certa probabilità, anche la sua vita familiare. L’esistenza di sintomi isterici in suo fratello e in alcune sue sorelle indusse Freud a pensare che forse anche suo padre avrebbe dovuto essere accusato di abusi sui propri figli (E. Jones, 1973). Inoltre grande importanza nel compiere quel gesto, aveva la liberazione dall’interesse che esercitavano su di lui le teorie chirurgiche flissiane organiciste basate sulle connessioni tra i “riflessi nasali” e i disturbi sessuali. Anche alla luce dell’imperizia che Fliess aveva dimostrato durante un intervento che aveva messo a rischio la vita di una paziente di Freud Emma Eckstein – che presenta analogie simboliche con “Irma”, citata da Freud a p. 270 de L’interpretazione dei sogni. Nella discussione di questo caso con Fliess, Freud arriva infine a discolpare l’amico, e a etichettare le emorragie nasali di Emma come “isteriche”. Fu con questa paziente che Freud incominciò a pensare che le storie di seduzioni raccontate dalle pazienti non erano realtà, ma fantasie.

Veniamo a Jeff Masson, psicoanalista ricercatore e direttore dei prestigiosi Freud Archives, sostiene che l’abbandono della teoria della seduzione fu un grave errore, fatale per lo sviluppo e la fecondità della psicoanalisi e per la ricerca della verità. Masson incominciò col notare che i pezzi che erano stati censurati dalle lettere di Freud a Fliess già pubblicate e scritte dopo il settembre 1897 (data in cui Freud abbandonò la teoria della seduzione) riguardavano principalmente casi clinici o commenti sulla seduzione sessuale dei bambini. Il motivo ovviamente era che il lettore non doveva essere confuso da questi passaggi, essendo avvenuto ormai l’abbandono della teoria della seduzione da parte di Freud. Queste posizioni furono esposte da Masson (1984) nel libro Assalto alla verità: la rinuncia di Freud alla teoria della seduzione, che rappresentò l’apice del cosiddetto “scandalo Masson”. Il caso o scandalo produrrà negli anni ottanta un terremoto teorico e mediatico sulla psicoanalisi, e un grosso scompiglio se egli viene licenziato dalla carica di direttore dell’Archivio Freudiano (pur conservando quella di direttore del Copyright) e se come egli riferisce, prima del licenziamento, gli viene offerta la somma di 30mila dollari in luogo del rinnovo di contratto, a patto che non agitasse troppo le acque. Una ragione su cui poggia l’evidente risonanza del caso Masson nel grande pubblico è legata al vasto movimento contro il child abuse che negli ultimi decenni è sorto negli Stati Uniti. E’ di quegli anni infatti la scoperta che l’incesto, le sevizie e i maltrattamenti ai bambini sono molto più frequenti di quanto si pensasse (Sheleff, 1981). Oggi le posizioni si sono smussate, lasciando spazio ad una riflessione meno impulsiva, e anche se possiamo sicuramente dire che, il rumore che ha fatto Masson sulla stampa riguardo al pericolo che la psicoanalisi sottovaluti i danni della seduzione sessuale dei bambini, non può che aver giovato ai necessari approfondimenti attuali sul tema, è opinione condivisa che Masson dimostra una cecità per l’ambivalenza che caratterizza i percorsi di lettura e le deduzioni freudiane. Egli legge queste contraddizioni in termini dicotomici che impongono ogni volta di scegliere da che parte stare, invece di integrare i contributi teorici, inoltre non considerando l’ambiguità in cui si ritrova Freud durante l’approfondimento delle sue teorie e durante le necessarie revisioni della sua opera. Paolo Migone (1984), ci fa invece notare un altro aspetto, sostenendo, che l’importanza del “caso Masson” è soprattutto quella di aver messo ancora una volta in luce precise modalità di funzionamento presenti nelle istituzioni psicoanalitiche: il tentativo di screditare l’avversario in vari modi, evitando di entrare nel merito della discussione delle critiche, l’importanza dell’appartenenza istituzionale, e la presenza di “segreti”, al posto della normale discussione scientifica.

Di opinione comune è anche Alice Miller, psicoanalista svizzera, che lasciò la Società Psicoanalitica in aperta polemica con i metodi e le teorie psicoanalitiche riguardanti l’occultamento del trauma, sostiene che i fatti personali di Freud legati al proprio padre abbiano rivestito un ruolo centrale nella trasformazione teorica. Nel suo famoso Saggio Il bambino inascoltato del 1981 denuncia la responsabilità di Freud e del maistrem psicoanalitico nel celare i maltrattamenti e gli abusi sessuali perpetrati sui bambini.

Ma veniamo al caso più complesso e più importante quello legato alla figura di Sandor Ferenczi amico e allievo di Freud. Oggi siamo a conoscenza di una corrispondenza tra Freud, Jones ed Eitingon concernente Sandor Ferenczi, e il suo lavoro scritto per il XII Congresso dell’IPA a Wiesbaden del 1932, in cui Ferenczi si pronuncia ancora in favore della teoria della seduzione sessuale dei bambini con il lavoro dal titolo “Confusione delle lingue tra adulti e bambini“. In queste lettere si legge dei tentativi fatti per impedire a Ferenczi di presentare il suo lavoro, con la motivazione che egli sarebbe stato malato, oltre che fisicamente, anche affetto da psicosi.

Nel suo saggio è evidente, il rimprovero a Freud, per aver privilegiato le fantasie inconsce dei bambini a discapito della realtà, e la sua assertività per l’importanza della realtà del trauma sessuale. Ferenzci fece leggere a Freud la relazione che egli intendeva presentare al congresso, e Freud gli chiese espressamente di non leggerla pubblicamente, poiché il suo contenuto andava contro lo sviluppo della psicoanalisi, offrendogli in cambio la presidenza della Società psicoanalitica. Ferenzci non acconsentì e si attirò le critiche di Freud e dei suoi collaboratori. Freud lo rimproverò di essersi alleato con i bambini dimostrando un atteggiamento poco virile (Rifelli, Bonomi). Sostiene Bonomi che questo avvenimento portò Ferenzci ad una conflittualità interna molto forte, Freud era stato il suo analista, e lo ipotizza come causa scatenante della sua malattia e della successiva morte. In questo articolo Ferenzci afferma con forza che la seduzione è operata dall’adulto e non dal bambino:

“Un adulto e un bambino nutrono affetto reciproco: il bambino ha la fantasia di fare il gioco della madre con l’adulto. Questo gioco può assumere forme erotiche, pur rimanendo al livello delle manifestazioni di tenerezza. Ma le cose vanno diversamente quando l’adulto ha tendenze patologiche, specialmente se il suo equilibrio e il suo autocontrollo sono alterati da qualche disgrazia o dall’uso di sostanze che ottundano la coscienza. Allora egli scambia gli scherzi del bambino per desideri di una persona sessualmente sviluppata, oppure si lascia andare ad atti sessuali, senza valutarne le conseguenze. Sono all’ordine del giorno effettivi atti di violenza su bambine che hanno da poco superato la primissima infanzia, atti analoghi di donne adulte su bambini di sesso maschile, e, naturalmente, anche violenze di natura omosessuale”. (Ferenzci, 1932).

Il testo di Ferenzci oltre a riesumare la teoria del trauma sessuale propone il confronto con due mondi diversi e due linguaggi diversi, per questo Ferenzci chiama l’articolo Confusione delle lingue, il linguaggio della tenerezza infantile nella relazione con l’adulto, l’altro il linguaggio amoroso-passionale. Per Ferenczi l’eziologia traumatica era il risultato dell’irruzione inaspettata della passione dell’adulto nel corpo e nella psiche del bambino immaturo. Particolarmente interessante è di chiarire il fatto traumatico partendo da quei pazienti che in analisi confessano di aver usato violenza ai bambini, una confessione contrapposta alla confessione dei soggetti passivi dell’abuso screditata e respinta da Freud. Risulta evidente che nell’articolo del 1932, considerato dagli esperti ferenziani, come la massima espressione nel confronto con Freud, ma anche la più alta e complessa riflessione sulla mente donataci dallo psicoanalista ungherese, egli esprima i postulati e le critiche dell’allievo nei confronti del maestro sulla tecnica psicoanalitica.

Dopo tutte queste riflessioni, a questo punto possiamo tornare a Freud, domandandoci come egli si pone all’interno del processo di psicologizzazione del trauma: siamo immersi in una tradizione che ci ha abituato a leggere l’opera di Freud a partire dall’abbandono della teoria del trauma reale e poi quando, verso gli anni ottanta, è riemersa una nuova sensibilità aperta al trauma questa si è dovuta confrontare con la polarizzazione, a favore o contro la svolta del 1897. Questa polarizzazione ha impedito di vedere l’inesauribile contradditorio che scorre all’interno dell’opera di Freud. Il punto è che quello ci è stato consegnato dalla tradizione è un Freud dagli angoli smussati, appiattito su posizioni predigerite che semplificano la trasmissione del sapere permettendo una più semplice e facile comprensione dell’impianto teorico ma che inevitabilmente trascura di osservare gli andamenti dello sviluppo del pensiero psicoanalitico. Accostarsi al pensiero freudiano solo attraverso l’opera dei suoi “evangelisti”, a mio avviso, non ci permette di osservare Freud nella sua complessità, con le sue evoluzioni, punti di vista, contraddizioni, trascura di osservare le pieghe creative all’interno delle quali si è sviluppato il pensiero psicoanalitico, non facendoci così comprendere e tollerare l’ambiguità dei suoi contenuti. E’ troppo facile rispondere, come molti hanno fatto, che è colpa di Freud che è stato lui a voltare le spalle alla realtà con la svolta del 1897. Si può infatti obiettare (come fanno i difensori della ortodossia) che se Freud non avesse voltato le spalle alla realtà non avrebbe mai scoperto la psiche dinamica. Così, Anna Freud immaginando il clamore e cercando di far riflettere Masson in una lettera del 10 settembre 1981, scrive:

“Conservare la teoria della seduzione significherebbe abbandonare il complesso edipico, e con esso l’intera importanza della vita interiore, delle fantasie consce ed inconsce. Di fatto, io penso che in seguito non ci sarebbe stata nessuna psicoanalisi”.

Questo è vero, ma si tratta della fase di un processo dialettico, in cui alla fine doveva pur emergere il problema come riconciliare realtà psichica e il materiale inconscio. E invece questo non è avvenuto (a parte poche e marginali eccezioni come Ferenzci e i suoi discepoli), basti pensare a come Ernest Jones, l’uomo che per oltre trent’anni è stata la massima autorità della psicoanalisi come biografo ed esegeta freudiano, ha presentato la svolta del 1987 nel primo volume della Vita e opere di Freud: raccomandando di ignorare gli atti incestuosi dei genitori, per occuparsi unicamente delle fantasie delle figlie dei desideri incestuosi verso i genitori e in modo caratteristico verso il genitore di sesso opposto. Vediamo come ci presenta la posizione di Freud rispetto al trauma Ernest Jones, nel primo volume della Vita e opere:

L’idea di un trauma passivamente sofferto, per esempio nel tentativo di seduzione sessuale […] lasciò il campo, dopo quattro anni, all’intuizione che il paziente fosse personalmente coinvolto nell’esperienza sessuale. Così alla concezione statica ne seguì una dinamica. C’erano desideri e impulsi di cui il paziente stesso era responsabile (Jones, 1953 p. 388).

Ma questo è il pensiero di Jones e non di Freud; la posizione di Freud e molto più complessa come abbiamo visto. Se noi, come Jones, utilizziamo a nostro piacimento il pensiero freudiano, per dimostrare i nostri intendimenti o le nostre utilità, è un problema nostro che non possiamo imputare a Freud. Più che Freud il problema riguarda i seguaci e il modo in cui il movimento ha funzionato, premiando l’allineamento e le doti burocratiche, al posto dell’originalità e del coraggio per le idee nuove.

Contrariamente a quanto accadeva e ai tempi di Freud oggi è diffusa nell’opinione pubblica la consapevolezza dell’estensione e dell’importanza del fenomeno dell’abuso sessuale a danno dei bambini. Freud, abbandonando e ripudiando, come abbiamo visto, la prima teoria della seduzione, a reso possibile l’insinuarsi di una impostazione teorica per cui invertiva i ruoli di chi seduceva chi, dove sono i bambini, con le loro fantasie sessuali e i loro desideri incestuosi, i seduttori inconsapevoli, e questo a mio avviso, ha gravemente nociuto all’immagine dell’infanzia presso certe categorie di adulti ai quali era utile e funzionale questa riflessione. Ha fatto si che rispettabili giudici di tribunali, avvocati, assistenti, sociali, medici, compresi psicologi e psicoterapeuti, abbiano continuato, per molto tempo, a discolpare padri, zii, nonni e affettuosi amici di famiglia, insegnanti, vicine di casa e fratelli, dalle denuncie fatte da coraggiosi bambini e giovani che non sopportavano più le molestie e gli abusi a cui erano sottoposti, spesso tra rimproveri e rifiuti dei propri familiari. E anche che storie di sofferenza e di abuso, descritte in maniera chiara e dettagliata, evidenti e reali, siano scambiate per fantasie legate alla sessualità infantile o indotte dalla madre che fantastica; fantasie profonde, appartenenti al mondo dell’inconscio. Mi sento di sostenere, dubbioso e esterrefatto davanti a queste disattese evidenze reali, che questi addetti ai lavori enfatizzano il mondo della fantasia e dell’inconscio appoggiandosi, semplificando e manipolando alcune teorie psicoanalitiche freudiane, non comprendendone a pieno la complessità dei significati. Negli ultimi anni, grazie all’opera di qualche intellettuale illuminato, per fortuna diamo più fiducia ai bambini e i tribunali, sono spesso frequentati da bambini in veste di testimoni e di vittime, ma ancora persistono posizioni contrarie a questa linea che utilizzano le teorie freudiane a proprio piacimento per difendere il mondo adulto spesso indifendibile.

Oggi la psicoanalisi e in particolare quella interpersonale (Sullivan, Horney, Fromm, Thompson, ecc.) per l’interesse di quest’ultima sull’ambiente, oltrechè sulle fantasie, non sottovaluta l’importanza dei traumi reali, infantili e non, considera realtà e fantasia incrociarsi continuamente in moto torsivo; e anche se è vero che il suo campo privilegiato di indagine è il mondo delle fantasie del paziente, o meglio il rapporto tra realtà e fantasie, tra oggetti esterni e interni, e il processo attraverso il quale questi ultimi vengono a strutturarsi, la realtà è continuamente monitorata e l’ombra dell’oggetto in sé può assumere un carattere traumatico (C. Bollas, 2001). Attraverso gli ultimi studi possiamo osservare che la teoria della seduzione non fu abbandonata così facilmente. Non solo essa perseguitò Freud per tutta la sua vita, come dimostrano le sue lettere non pubblicate, ma i timori dimostrati durante l’incontro con Ferenzci testimoniano quanto temesse l’impostazione ferenziana indissolubilmente legata al binomio fantasia e realtà e quanto questo si proponesse come un grande dilemma alla riflessione freudiana Vi invito a valutare l’opera freudiana considerando la funzione e il ruolo degli evangelisti e dei distrattori, la necessità di impostare una semplificazione teorica comprensibile al più vasto pubblico, l’ambiguità del pensiero di un soggetto che per primo ha esplorato i temi profondi della mente e che ha riorganizzato continuamente la teoria considerando centrale il luogo dell’inconscio come depositario di fantasie e realtà ancorate. Alla luce di queste riflessioni e se amplifichiamo la scena ci rendiamo conto che potremo parlare di miscela traumatica su cui Freud tornerà continuamente sempre e di nuovo per tutta la vita, fino ad edificare attorno a questo qualcosa la sua opera- quell’opera in cui tanta importanza avranno le scene primarie di seduzione/stupro/ castrazione (Bonomi, 2009).

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Il contributo della psicoanalisi al disagio psicologico

Introduzione

Per Psicoanalisi  si intende un procedimento, un metodo terapeutico per l’indagine di processi psichici profondi e inconsci, a cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere. La psicoanalisi, dal suo esordio e per sua natura, è stata oggetto di una ricerca continua che ne ha ampliato i confini sia come metodo di cura sia come forma di conoscenza. Proprio perchè l’esplorazione determina una serie di conoscenze psicologiche che gradualmente si assommano e convergono in una disciplina scientifica. La psicoanalisi viene oggi riconosciuta come una valida teoria anche da altre discipline, sia scientifiche che umanistiche. E le sfide della modernità sono affrontate dalla psicoanalisi insieme alle scienze che si occupano dello studio della mente, e in sinergia con le discipline psichiatriche, neurologiche e neuropsicologiche. La psicoanalisi è una scienza a statuto speciale, o scienza debole, ma le neuroscienze confermano la validità della psicoanalisi; infatti gli studi attuali delle neuroscienze degli ultimi 10anni avvalorano le tesi di sistemi di processazione dell’inconscio e dell’esistenza di un inconscio emotivo, un’pò lontano a dire il vero dall’inconscio dinamico freudiano, che però confermano una vita emotiva separata dalla coscienza (Gallese, Mancia), e che le tecniche di visualizzazione celebrale  (RMN) neuroimaging e la stimolazione magnetica transcranica (TMS) permettono di osservare.

La psicoanalisi con la sua straordinaria evoluzione teorico-clinica ha contribuito a descrivere, trattare e guarire aree sempre più specifiche del disagio mentale, dalle nevrosi alle forme più gravi. Infatti la psicoanalisi è applicata con successo, oltre l’iniziale campo delle psiconevrosi (nevrosi isterica, nevrosi fobica-ossessiva), a diverse forme psicopatologiche. La psicoanalisi nata come cura dell’adulto, è stata estesa, anche ai bambini, agli adolescenti e ai gruppi, e come psicoterapia psicoanalitica può essere applicata alla coppia.

E a dispetto di una storia infinita di litigi, scissioni, scontri, diffidenze, sospetti, accuse che da sempre la attraversano e la indeboliscono, di fronte al mondo, da il suo contributo alla cura dell’uomo e all’interpretazione della realtà. E’ vero le scissioni, io qui rappresento la psicoanalisi relazione interpersonale che ritengo abbia portato all’interno della psicoanalisi una ventata di modernità di grande valore teorico.

Oggi questa appendice considera la relazione paziente–analista determinante. Con questa prospettiva la psicologia passa da monopersonale a bipersonale e l’analista non è neutrale, come si pensava prima,  dove il suo compito era solo quello di interpretare  e scoprire la verità su il paziente. Oggi sosteniamo che la mente del paziente viene ad organizzarsi dalle mutevoli interazioni con l’analista e che il successo analitico si determina dalla tensione attiva della relazione; essa produce qualcosa di nuovo una co-costruzione a due mani, permette la formazione della personalità e lo sviluppo del pensiero.

Questa impostazione teorica si combina con una concezione della psicopatologia basata sul fallimento ambientale. Al centro vengono poste condizioni disadattive acquisite nella prima infanzia dovute a fallimenti delle cure materne, ad ambienti deprivati e traumatizzanti. Questo non vuol dire escludere l’ereditarietà come causa del disturbo, è difficile categorizzare ogni storia è personale ed abbiamo a che fare con un uomo o donna in carne ed ossaa. Alla concezione di una psicopatologia basata sui diversi tipi di fallimento ambientale e sociale fa da parallelo una concezione del trattamento come mezzo per correggere riparare gli effetti di tali fallimenti, la relazione che fa ammalare e la relazione che cura.

L’esperienza dell’analisi, ad ore e giorni convenuti (il setting), si basa su una ricerca metodica e impegnativa del contatto con sé stessi, con il proprio inconscio. Il lavoro clinico psicoanalitico  rivolge una particolare attenzione alla interazione terapeuta–paziente (processi di transfert), alle personificazioni genitoriali profonde, agli aspetti emozionali e pulsionali, alla dimensione creativa–immaginativa della mente, al Sé, al lavoro sui meccanismi di difesa, il conflitto, i sogni e i simboli. E ormai sappiamo bene che il recupero di una valida soggettività individuale, in molti casi di nevrosi, patologie narcisistiche, sindromi borderline, psicosi è reso possibile da una relazione complessa e continuativa tra due persone, da un “lavorare insieme” su angosce, bisogni, dolori, desideri non riconosciuti.

Parlare di psicoanalisi è parlare di un “fattore umano“, e si perché dal momento che Freud scopre l’inconscio 1900, e cioè che esiste un mondo interno a noi con le sue regole, e che le relazioni sono mosse anche da un mondo inconscio, parlare dell’uomo è anche parlare del suo inconscio. La psicologia del senso comune. Come sostiene Freud (1916) l’uomo “non è padrone a casa propria” e questo ebbe un impatto paragonabile ala rivoluzione copernicana e darwiniana. Esistono delle tracce mnestiche dei ricordi belli della nostra vita che ci aiutano a non avere paura o ad averne meno, e delle circostanze dolorose, cattive, indegne, sgradevoli contrarie all’etica che ci fanno così paura che le dimentichiamo, le trasformiamo e nascondiamo appunto nell’inconscio, nel non conosciuto, perchè non le si vuole ricordare. La psicoanalisi nasce da quelle che si possono chiamare le crepe della attività psichica cosciente, per quello che mostra di sottostante, usando una metafora spaziale. La psicoanalisi ha come specificità il continuo riferimento all’opera del suo fondatore Sigmund Freud, e come sostiene Lacan, il suo riferimento è imprescindibile, sia per coloro che producono un avanzamento ripartendo da continue riflessioni della stessa, sia per coloro che invece riconoscono l’opera del suo fondatore come non superabile oppure addirittura criticabile e da gettare. Parlerò anch’io di Freud: la terapia psicoanalitica come la intendeva Freud si basa sulla scoperta delle tendenze inconsce che conducono alla formazione dei sintomi o di proprietà caratteriali nevrotiche. I sintomi nevrotici rappresentano l’espressione simbolica  compensatoria di un conflitto psichico che ha le sue radici nella storia sessuale infantile e nel complesso di Edipo e costituisco un compromesso tra desiderio e difesa, tra le tendenze inconsce rimosse e quelle che spingono verso la coscienza.

Oggi diremo che lo stato interiore di disagio si determina a causa di un conflitto, esso nasce in maniera inconsapevole per l’attaccamento a modalità affettivo comportamentali proprie di quello stadio di sviluppo interessato (legami ad immagini genitoriali, persistenza di esigenze infantili non superate, ecc.), da una relazione complessa e inefficace vissuta dal soggetto, o sintetizza uno stato di angoscia, tutto questo entra in contrasto con le necessità ed i limiti della realtà interna ed esterna delle epoche successive. Da questo ancoraggio, il cui significato ed importanza vengono rimossi, la psiche sviluppa mediante meccanismi di difesa contro l’angoscia, i sintomi, formazioni di compromesso. Per es., l’ansia legata ad un luogo ad uno spazio, l’aereo, l’ascensore, la folla, l’autostrada, ecc.. la situazione stressante permette l’evidenza di un disagio la cui radice alberga da altra parte. Pensiamo alla conversione corporea, dove il conflitto non può essere pensato, allora il corpo veicola, diviene l’espressione del disagio, la colite, gastrite ecc.. il sintomo psichico è come l’innalzamento della temperatura corporea, la febbre, ci fa capire che qualcosa non va, il problema è capire cosa non va e dove sta? In ogni caso un fattore comune del soggetto disturbato è l’inacessibilità alla coscienza del significato degli stimoli ansiosi e\o depressivi, e di conseguenza l’incapacità di dirigere in maniera costruttiva e adeguata le proprie reazioni. Lo studio dei disturbi, attraverso la psicoanalisi o le psicoterapie dinamiche, può chiarire i motivi che stanno alla base dei disturbi.

Originariamente, Freud pone la sua attenzione sull’angoscia motivata da una violenza esterna, il trauma o l’abuso subito, la quale può portare a una vera rimozione, diremo noi scissione adesso, è in genere accompagnata dalla angoscia di perdere l’amore di coloro che ammiriamo, che consideriamo importanti e di cui siamo dipendenti, questo è il periodo degli studi sull’isteria. Successivamente Freud abbandonò, non sto qui a spiegarvi le complesse ragioni, il piano del reale per spostarsi sul piano delle fantasie e dell’inconscio, eliminando di fatto così il reale come fonte psicopatologica.

Come abbiamo visto gli analisti non si sono fermati a Freud ma continuano a rielaborare la teoria. Secondo Kohut il disturbo viene a determinarsi nelle relazioni primarie, gli affetti di amore e di odio nei confronti degli oggetti primari, non sono il risultato di energie pulsionali, ma vengono ad organizzarsi nello sviluppo della prima infanzia dalle capacità di rispecchiamento dei genitori nei confronti dei bisogni affettivi del bambino. Questo punto di osservazione aprì la strada alla psicoanalisi relazionale e interpersonale che io qui rappresento. Essa esplora non solo la dimensione inconscia, suo specifico storico e sostanziale, ma anche il rapporto della coscienza e della realtà con l’inconscio, e osserva gli individui nelle relazioni, nella coppia, nel gruppo, nella comunità, un moderno modo di intendere la psicoanalisi.